Italia, la Nazione che non c'è

Polemiche sulle celebrazioni dell'Unità e tra Sud e Nord
Piero Ostellino
30.07.2009 05:01

di PIERO OSTELLINO - Le celebrazioni per il 150. anniversario dell?Unità d?Italia  nel 2011 sembrano condannate al fallimento non tanto per mancanza di quattrini – che effettivamente non ci sono – quanto perché l?Italia, come Stato unitario e moderno, non c?è. C?è al suo posto «Lo Stato canaglia» che massacra gli italiani a reddito fisso, prelevando alla fonte quasi il cinquanta per cento dei loro guadagni, mentre consente una colossale evasione da parte di chi deve fare la denuncia dei redditi e manco la fa, e ne esenta quelli che hanno un buon commercialista e fanno sparire i loro profitti negli anfratti di fantomatici bilanci societari, se non all?ombra di non meglio definite attività estere; che sforna una massa di divieti e di proibizioni sulla base del principio che tutto è proibito tranne ciò che è espressamente consentito (l?opposto dello Stato liberale); fornisce servizi indegni di un Paese civile (basta vedere come sono ridotti certi treni di TrenItalia per rendersene conto) e oltremodo costosi per la collettività; ha spaccato la Penisola in due: il Nord che ne tiene in piedi l?economia e finanzia, con le sue tasse, il Tesoro, il Sud che sperpera su tutto (nella Sanità, nella Giustizia, nel Welfare, nell?Istruzione, nelle Poste, in tutti i settori della Pubblica amministrazione, parimenti costosi e inefficienti); lascia nelle mani della criminalità organizzata l?intero Meridione. Quando si erano celebrati i cento anni, il coordinatore torinese delle manifestazioni aveva fondato un giornale del quale si era tenuto la direzione, ma la cui fattura materiale aveva affidato a me. Di fronte allo spreco di risorse in inutili «cattedrali» dedicate al culto della retorica nazionale, io – che, ahimè, ho sempre avuto la vocazione del bastian-contrario – avevo pubblicato una serie di inchieste che denunciava quello spreco. Il direttore – che pur era un onesto e mite parlamentare liberale – aveva, dapprima, sopportato pazientemente, poi, probabilmente su sollecitazione del suo stesso partito, aveva finito, a malavoglia (in fondo, in cuor suo, da vecchio liberale, gli piaceva l?anticonformismo di quel giovane liberale scapestrato e refrattario a raccontar balle) col licenziarmi con un? onorevole buonuscita. E aveva chiuso il giornale. Naturalmente, una volta terminate le celebrazioni, qualche anno dopo, alcune delle cattedrali si erano ridotte a ingombranti ferrivecchi. Da allora, gli italiani – che in generale sono più smaliziati di noi piemontesi – si sono fatti furbi. Così, invece di parlare delle «cose», pratiche e destinate a durare nel tempo, che si potrebbero fare, e probabilmente non si faranno, nella circostanza, discutono del rapporto fra Sud e Nord d?Italia alla luce della storiografia nazionale. Esercizio utile, perché no, a riempire le pagine dei giornali e a incoraggiare l?improbabile nascita di un Partito del Sud che rivendichi più assistenzialismo, ma da assimilare a quello sul sesso degli angeli sotto il profilo dei suoi possibili effetti pratici. Sul piano dei quali, c?è chi, in verità, ha proposto la costruzione di un Grande Museo Nazionale come il Louvre parigino. Proposta, però, scarsamente praticabile perché l?Italia non è la Francia – che è uno Stato centralizzato da sempre, dentro il quale è confluito l?intero «spirito della Nazione» – ma è un arcipelago di Comuni rinascimentali, unificati dal genio diplomatico di un uomo (Cavour) e dallo spirito di conquista di una monarchia militare, ciascuno dei quali ha il suo museo e ne è geloso custode. Qualcun altro, ha proposto la costruzione di una Grande Biblioteca Nazionale, anche questa sul modello francese, voluta da Mitterrand a gloria della propria Presidenza, per la quale vale – all?incontrario – la stessa obiezione del Museo. È pur vero che, in Italia, lo stato di abbandono delle biblioteche locali è miserando; ma dal momento che, fra le abitudini degli italiani, ben scarsa è quella della lettura, che farne, allora, di una Biblioteca Nazionale in un Paese che ha letteralmente disperso, e che persino nega, il proprio patrimonio culturale (basterebbe pensare al lascito di tutto il pensiero filosofico e politico dell?Italia da Machiavelli a Vico, a Pareto, su, su, fino a Benedetto Croce)? Quasi nessuno ha pensato al «prodotto» destinato a durare, e a perpetuarsi, nel tempo, che, oltre tutto, sarebbe il solo e autentico «Monumento alla Memoria Collettiva» – la cui esigenza tutte le forze politiche proclamano a ogni piè sospinto, ma che nessuna, poi, contribuisce a costruire – il Grande Archivio Nazionale.Capisco le possibili obiezioni. La memoria non è affatto condivisa, l?Italia vive in una perpetua «guerra civile» - da quella, immediatamente dopo l?Unità, del Governo Ricasoli contro il brigantinaggio e la delinquenza nelle regioni meridionali, a quella dopo la Liberazione, nella seconda metà degli anni Quaranta, che divise il Paese, insanguinandolo e infettandolo, fra comunisti, che perseguivano l?illusione della rivoluzione proletaria, e il resto della popolazione, che guardava alle democrazie liberali dell?Occidente capitalista e che avrebbe votato, nel 1948, per la Democrazia cristiana e i Partiti di centro poi suoi alleati di Governo. Per molti meridionali, la lotta al brigantinaggio e alla delinquenza è stata, in realtà, una guerra degli invasori piemontesi contro la libertà e l?indipendenza delle popolazioni meridionali per soggiogarle agli interessi del Nord. Lo Stato dei Borboni, arretrato quanto si vuole, aveva pur sempre costruito la prima ferrovia sul territorio italiano; illiberale quanto si vuole, aveva persino instaurato senza volerlo – ma questo è solo un paradosso per dimostrare quanto le leggi della politica siano spesso evanescenti – la prassi della sicurezza personale su basi private, invece che pubbliche a spese dell?Erario, teorizzata e auspicata dal libertarismo americano del Novecento: chi da Napoli doveva recarsi, poniamo, a Palermo, si dotava di una scorta armata, non potendo contare sulle difese dello Stato! Né la Prima, costosa e inutile, Guerra Mondiale – si sarebbe potuto ottenere lo stesso risultato, per via diplomatica, restando militarmente neutrali – che avrebbe dovuto concludere il Risorgimento, aveva facilitato la nascita di una coscienza nazionale. La morte sul Carso della più bella gioventù, i figli della borghesia liberale, la sola che poteva garantire uno sviluppo progressivo della coscienza nazionale, aveva, anzi, spalancato le porte alle violenze dello squadrismo fascista, al nazionalismo, rivendicazionista e straccione, e al totalitarismo mussoliniano che avrebbero ulteriormente spaccato in due la Nazione, fra fascisti e anti-fascisti. La sciagurata partecipazione alla Seconda Guerra Mondiale ha avuto lo stesso effetto, questa volta dividendo il Paese fra comunisti – che guardavano all?Unione Sovietica come alla propria vera Patria, e anticomunisti, molti dei quali, però, appartenenti al movimento cattolico (erede dei «bolscevichi bianchi» dei primi del Novecento), sono ancora adesso ostili al capitalismo e allo Stato liberale perché hanno nel cuore il non expedit di Pio IX, l?invocazione a non compromettersi con la politica dello Stato unitario, dopo Porta Pia. La parola Nazione, come Patria, è praticamente scomparsa dal vocabolario ed è considerata poco meno di una brutta parola nel ricordo dell?uso, distorto e bellicoso, che ne aveva fatto il fascismo. In conclusione. È nell?assenza di «senso comune» – di rapporto con la realtà «effettuale» (come direbbe Machiavelli) e non con le retoriche pro e contro – sia pure nel quadro di un «pluralismo di valori» proprio di uno Stato liberale – che si innestano le polemiche sulle celebrazioni dell?Unità d?Italia e quelle fra Sud e Nord. Se gli italiani non tornano metaforicamente a scuola – possibilmente una scuola migliore di quella dove sono cresciuti finora – e imparano davvero che cosa è stato ed è il loro Paese, non ne escono. L?Italia non sarà mai Nazione né gli italiani un popolo.