Analisi

Inflazione, vecchi dogmi per un mondo che cambia

La prossima settimana la Federal Reserve deciderà se abbassare o no i tassi d’interesse - La spinta ai prezzi però viene dalle tensioni geopolitiche e dal rincaro delle materie prime a partire da quelle industriali senza dimenticare i beni agricoli
Riso, caffè e grano sempre più cari. ©AP/Amanda Loman
Gian Luigi Trucco
27.04.2024 00:00

A livello globale la recessione è (forse) evitata, la Cina mostra qualche segno di ripresa congiunturale grazie al sostegno pubblico, l’economia USA gode di una discreta salute nonostante i livelli enormi di indebitamento, pubblico e privato. Su di un altro versante i rischi geopolitici lievitano con il loro corollario di sanzioni, di possibili intralci logistici in luoghi «critici», costi e prezzi non possono che aumentare. Il prossimo round di sanzioni nei confronti di Teheran può determinare uno scompenso entro un mercato petrolifero in cui la domanda non dà cenni di cedimento, l’offerta si mantiene rigida e il «premio» per il rischio geopolitico non può che salire. Non stupisce quindi che la Sybilla finanziaria di Washington, il presidente della Federal Reserve (Fed) Jerome Powell, mostri un’estrema cautela nell’esprimere il suo responso ed evocando lo spettro di un possibile rigurgito inflazionistico, provochi un certo nervosismo sui mercati indicando tassi elevati per un tempo più lungo rispetto a quanto gli operatori avessero previsto. Giova ricordare come il tasso ipotecario medio negli USA sia intorno al 7% l’anno e quello praticato sulle carte di credito sia anche superiore al 20% l’anno. Il tasso di riferimento della Fed assume quindi un ruolo poco più che teorico.

In realtà, che l’inflazione non sia del tutto sconfitta è un responso che viene dall’esame dei semplici dati, a prescindere dai metodi spesso discutibili con cui il valore dell’inflazione stessa viene calcolata.

Basti pensare che la recente esclusione, decisa da USA e Regno Unito, dei metalli di produzione russa dal trading del London Metal Exchange e del Chicago Mercantile Exchange ha determinato una impennata ulteriore dei prezzi di sostanze fondamentali quali rame, nickel e alluminio, tutti giunti ai livelli massimi degli ultimi due anni. Con l’annuncio della sanzione, il prezzo dell’alluminio è salito di quasi il 10% in una sola seduta, il salto più alto dal 1987. L’esclusione, al di là dell’effetto finanziario, può anche compromettere l’approvvigionamento fisico e, secondo i portavoce di Rusal, il maggiore produttore di alluminio russo, i problemi potrebbero riguardare l’Europa, in quanto la domanda globale è forte e Cina, India e Turchia possono assorbire agevolmente il metallo oggetto delle sanzioni anglo-americane. Intanto, da Washington giungono annunci di una nuova guerra dei dazi sui metalli con Pechino.

Ma sono molti comparti delle materie prime a registrare incrementi di prezzo più o meno sensibili, a iniziare ovviamente dall’oro, ormai attestato a ridosso dei 2.400 dollari l’oncia, dopo aver rotto le correlazioni inverse nei riguardi del biglietto verde e dei tassi, che lo avrebbero dovuto invece indebolire, con una corsa che potrebbe giungere, secondo alcuni operatori, ai 4 mila dollari l’oncia in tempi non lontani. Il suo incremento di prezzo è di oltre il 13% da inizio 2024 e di quasi il 18% negli ultimi 12 mesi.

Aumenti a doppia cifra

L’argento, che ha impieghi ampi nelle industrie tradizionali e in quelle high-tech, segna da inizio anno un +14,4%, il rame il 17,7% e crescite ragguardevoli interessano anche i già citati alluminio, zinco e nickel.

Se si passa al comparto delle soft commodity agroalimentari, è vero che alcune hanno corretto i forti incrementi registrati lo scorso anno ma, ad esempio, il riso segna ancora +11,2% da inizio 2024, il caffè +20% e il cacao addirittura +158%.

Il petrolio, le cui variazioni di prezzo incidono non solamente sui costi della logistica, ma su moltissime catene di produzione nei più diversi ambiti, vede un incremento da inizio anno del 16% per la quotazione del Brent londinese.

Se consideriamo poi che oltre il 90% delle merci, dai metalli alle fonti energetiche, dai prodotti finiti e semilavorati alle derrate alimentari in container viaggiano via mare, va notato come, complice la crisi di Suez, del Mar Rosso, del Mar Nero, di Hormuz e delle acque circostanti, oltre alle difficoltà di passaggio nel Canale di Panama e al ritorno della pirateria nell’Oceano Indiano al largo della Somalia, abbiano determinato - e ancora determinino, con l’escalation progressiva delle tensioni - aumenti sensibili dei noli (dal Far East all’Europa in molti casi addirittura triplicati) e dei costi di assicurazione (anche centinaia di migliaia di dollari a viaggio) che gli armatori si trovano a sostenere. Per alcune merci deperibili o di valore il trasporto marittimo è stato sostituito con quello aereo, a costi ancora più alti.

La lotta per le terre rare

Frattanto l’Occidente tenta di strappare alla Cina il quasi-monopolio che detiene sui metalli delle terre rare e su altri materiali di interesse strategico, fondamentali per la transizione energetica e tecnologica. Nel dubbio che le nuove tecnologie possano generare miracoli nella produttività delle imprese, la Pax Americana, estesa finora anche al Grande Sud, appare al tramonto. Anche il movimento dell’oro sembra indicarlo, visto che Pechino lo acquista vendendo Treasuries di un concorrente superindebitato.

Date queste condizioni, il responso della Sybilla di Washington appare più che ragionevole, anche se potrebbe essere sconfessato dalla politica in virtù della superiore «ragion di Stato». L’inflazione infatti favorisce sempre il debitore anche se distrugge ricchezza e risparmio.

Costo del denaro, taglio a rischio negli USA

Negli Stati Uniti l’inflazione misurata dall’indice PCE, il personal consumption expenditure che la Federal Reserve utilizza come uno dei principali indicatori delle pressioni sui prezzi, è salito in marzo dello 0,3%, in linea con le attese. L’indice core è però balzato del 2,8%, sopra il 2,7% previsto dal mercato. Un dato che si aggiunge alla frenata delle l’economia americana che è cresciuta solo dell’1,6% nei primi tre mesi dell’anno, molto meno delle attese. Una frenata che innervosisce ma che non preoccupa quanto le persistenti pressione inflazionistiche tanto che si stima che il prospettato taglio dei tassi slitterà a novembre se non a dicembre.