Il caso

Inchiesta sugli stupri di Hamas: «Il New York Times chiarisca»

Oltre cinquanta professori di giornalismo delle migliori università statunitensi pretendono chiarezza attorno a un'inchiesta pubblicata lo scorso dicembre dal quotidiano
© AP
Red. Online
30.04.2024 13:30

Sì, è necessario far luce e chiarezza attorno a un'inchiesta pubblicata dal New York Times e incentrata sugli stupri di massa commessi da Hamas lo scorso 7 ottobre, durante gli attacchi contro Israele. È quanto chiedono, a gran voce e tramite una lettera firmata, oltre 50 professori di giornalismo delle migliori università americane. Da mesi, d'altronde, tanto alcuni dipendenti del Times quanto personalità esterne hanno espresso non poche critiche e preoccupazioni in merito alle modalità attraverso cui la storia, questa storia, è stata costruita. Sia in termini di affidabilità e credibilità delle fonti, sia pensando al processo stesso con cui è stato scritto l'articolo.

La lettera, firmata da professori impiegati, fra le altre, presso la New York University, l'Università della Pennsylvania, l'Emory e l'Università del Texas, chiede al New York Times di «incaricare immediatamente un gruppo di esperti di giornalismo di condurre un'approfondita e completa revisione indipendente dei processi di segnalazione, redazione e pubblicazione di questa storia e di pubblicare un rapporto sui risultati». La missiva è stata inviata ieri, lunedì, all'editore della testata, A.G. Sulzberger, al direttore esecutivo Joe Kahn e al responsabile degli esteri Philip Pan. Riguardo all'inchiesta, tramite un portavoce il Times ha (più volte) affermato che il giornale, oltre ad aver esaminato il lavoro svolto, è soddisfatto del risultato. Non solo, ritiene che l'articolo sia «conforme ai nostri standard editoriali». 

La capacità di riconoscere eventuali errori o mancanze, soprattutto nel giornalismo anglosassone, è un aspetto molto rilevante. In ballo, fra le altre cose, c'è la credibilità stessa della testata. Il Times, ad esempio, aveva rivisto in maniera critica e indipendente la sua copertura del periodo precedente l'invasione dell'Iraq. Spiegando, poi, ai lettori di aver individuato alcune storie e inchieste «problematiche» basate su «resoconti di fonti irachene la cui credibilità è stata oggetto di un crescente dibattito pubblico». Tradotto: non erano affidabili.

Tra i firmatari della lettera, scrive il Washington Post, figurano Robert McChesney dell'Università dell'Illinois, Victor Pickard dell'Università della Pennsylvania, Maggy Zanger dell'Università dell'Arizona e Diane Winston dell'Università della California del Sud. Le domande a proposito di questa inchiesta sono iniziate a emergere, con forza, poco dopo la pubblicazione, lo scorso dicembre. Il titolo dell'articolo? Screams Without Words: How Hamas Weaponized Sexual Violence on Oct. 7. Fra i problemi emersi, il fatto che i parenti di una donna uccisa durante i massacri di Hamas – la cui storia ha occupato un ruolo centrale nell'inchiesta – abbiano messo in dubbio le indiscrezioni secondo cui sarebbe stata violentata. Altri critici, invece, hanno sottolineato le discrepanze di un testimone oculare. A causa dei tanti, troppi punti oscuri – secondo The Intercept – il podcast di punta del Times, The Daily, ha infine deciso di non parlare dell'inchiesta durante una sua puntata. Non solo, il Times ha pure avviato un'indagine interna per capire chi, all'interno della redazione, avesse espresso con l'esterno dubbi riguardo all'articolo. Un'indagine che il sindacato dei giornalisti ha definito «una caccia alle streghe a sfondo razziale». Sempre The Intercept ha poi riferito che il Times, per questa storia, si è affidato a due freelance relativamente inesperti, Anat Schwartz e Adam Sella.

Jeffrey Gettleman, il corrispondente del Times che ha messo insieme tutti i pezzi del puzzle, componendo infine l'articolo, è stato invece accusato di aver detto di non voler usare la parola «prova» per descrivere e contestualizzare alcuni dettagli della storia che ha raccontato assieme a Schwartz e Sella. E questo perché quel termine, a suo dire, suggerirebbe che «si sta cercando di dimostrare un'accusa o di provare un caso in tribunale». Così, al riguardo, la lettera dei professori inviata al giornale: «Questo linguaggio è in netto contrasto con la storia stessa, che utilizza la parola prove nel titolo secondario».

A marzo, il Times ha ammesso che nuove prove video «sminuivano» alcuni dettagli del suo reporting iniziale. Ma il quotidiano non ha pubblicato una rettifica né ha ritrattato quanto pubblicato in dicembre. Una mossa, questa, che i professori di giornalismo hanno definito una «decisione insolita».

Shahan Mufti, professore all'Università di Richmond, ha dichiarato in un'intervista che quanto accaduto e, soprattutto, l'atteggiamento del Times nel corso dei mesi richiedeva e richiede una risposta da parte dei professori di giornalismo. «Non siamo soliti dire agli addetti ai lavori come svolgere il loro lavoro» ha detto Mufti. «Ma in questo caso specifico siamo giunti alla conclusione che è necessario farlo». Sandy Tolan, professore all'Università della California del Sud, ha affermato che anche la tempistica della storia – mentre l'opinione pubblica statunitense si stava spostando verso una comprensione più critica della devastazione dei bombardamenti israeliani sulle aree civili di Gaza – è rilevante. «Mentre il bilancio delle vittime a Gaza aumentava e le critiche cominciavano a concentrarsi maggiormente su Israele, il New York Times ha pubblicato questa storia, che sembra essere stata pubblicata prematuramente».  Ancora Tolan: «Tenendo conto dei potenziali danni e delle conseguenze della tempistica, dato che la notizia non sembra essere stata raccontata bene come avrebbe dovuto, c'è una ragione in più per cui una revisione esterna è appropriata».

Una revisione indipendente potrebbe portare alla conclusione che il New York Times non ha fatto nulla di sbagliato, si legge nella lettera, oppure trovare errori nel modo in cui la redazione ha operato. In ogni caso, conclude la missiva, una revisione immediata di quanto pubblicato «è l'unica cosa responsabile e credibile da fare».