L'editoriale

Il lavoro, le parole, i giovani, gli architetti

Il 1. maggio resiste ed è un bene che sia così, ma sarebbe buona cosa se questa commemorazione fosse finalizzata ad aprire le menti a riflettere profondamente e concretamente sul senso del lavoro
Gianni Righinetti
02.05.2024 06:00

Ci sono innumerevoli feste nel calendario, molte tramandate dalla nostra cultura, in particolare quella cattolica, altre sono prettamente legate al business e provengono dagli Stati Uniti, come Halloween. Poi ci sono le giornate d’ogni genere inventate cammin facendo, quasi che il genere umano non possa più vivere 24 ore senza che quel lasso di tempo non sia in relazione con qualcosa. Quelle riconosciute dall’ONU sono 152 e ve ne risparmiamo l’elenco, per certi versi fin stucchevole: c’è spazio anche per la nutella, il whisky e la risata. Ma non abbiamo trovato il «senso del ridicolo». Forse è quello che accomuna una lista della quale avremmo fatto anche a meno. Tra le celebrazioni serie ci mettiamo senz’altro quella che ci siamo lasciati alle spalle, la Festa del lavoro. Seria perché il lavoro è parte integrante della nostra vita, perché lavorare genera ciò che ci permette di vivere, ma anche perché il lavoro è sostanza della nostra esistenza, fatta di relazioni e il lavoro aiuta anche a restare in contatto con il prossimo. Ma questo vale tutto l’anno (escluse le sacrosante ferie e i giorni di riposo). Il 1. maggio resiste ed è un bene che sia così, ma sarebbe buona cosa se questa commemorazione fosse finalizzata ad aprire le menti a riflettere profondamente e concretamente sul senso del lavoro piuttosto che trasformarsi in maniera imperitura in un momento di schierata rivendicazione. Dobbiamo ammettere che nella logica attuale la Festa del lavoro è come quelle giornate celebrative e commemorative che ci inducono a parlare tutti della stessa cosa e di farlo esprimendo stereotipati concetti ritenuti buoni e saggi da chi sventola bandiere, sostiene striscioni o impugna un megafono in piazza. E se non esprimi i sentimenti dettati da costoro sei un nemico dei lavoratori, sei un approfittatore, in questi giorni c’è chi ha sprecato anche l’altisonante termine di «sfruttatore». È la tattica stranota secondo la quale, una volta stanata una pecora nera (e ben venga che ciò accada), tutto il gregge diventa dello stesso colore: tetro, cupo e negativo. L’imprenditore diventa il nemico, quello che se ne approfitta senza farsi alcuno scrupolo e se chiede sgravi fiscali alla luce di un tangibile e cospicuo sostegno dato alle finanze pubbliche, si trasforma in un mostro che mira solo allo smantellamento della cosa pubblica e dello Stato sociale in genere. È un modo di pensare e interpretare la realtà che nessuno si illude di debellare, ma almeno uno sforzo, trascorso questo 1. maggio, in vista del prossimo, ci sentiamo di promuoverlo, per prendere coscienza di alcune realtà. Nessuno si illuda che massacrando chi genera lavoro si aiuteranno i lavoratori e si permetterà all’economia di viaggiare a velocità sostenuta. Le rivendicazioni fanno rumore, generano eco mediatica, alimentano lo scontro politico. Ma a cosa servono in pratica?

In tutto quanto descritto c’è qualcosa che manca, un’assenza pesante, la sola variabile che ci permette di guardare al futuro con fiducia: i giovani, i nostri figli, gli adulti di domani. Chi promuove il 1. maggio, chi fa l’imprenditore e chi ha un ruolo politico, non parla di quanto si può fare per il lavoro di domani, quello che potremmo definire «il nuovo lavoro», quello che coinvolgerà le nuove generazioni chiamate a forgiare la società di domani. Le nuove tecnologie, la digitalizzazione, l’automazione e l’intelligenza artificiale sono realtà e si tratta di trasformarle in opportunità anche per il Ticino. La cosiddetta «fuga dei cervelli» si combatte con i fatti, non con le parole trite e ritrite, urlate e affidate al vento. Si tratta di costruire il futuro. Ma non si vedono figure quali architetti, ingegneri e manovali dentro e fuori dal 1. maggio.