L'editoriale

Se il sogno di Star Trek spaventa la Svizzera

Un software di traduzione perfetto? Potrebbe portarci la scorciatoia tecnologica che svuota di senso lo sforzo della reciproca con conoscenza delle lingue nazionali: diventeremmo non solo più ignoranti ma di sicuro molto meno svizzeri
Matteo Airaghi
Matteo Airaghi
27.04.2024 06:00

Certo il teletrasporto rimane un chiodo fisso, un po’ come le macchine volanti, le spade laser o i mantelli dell’invisibilità. Eppure, di tutto l’immaginario culturale della fantascienza che ci portiamo dietro, il traduttore universale rimane, per mille ragioni, ancora qualcosa di speciale. Dalle geniali macchinette inventate da Archimede Pitagorico per soddisfare le eccentriche pretese di Zio Paperone, al dorato e prudente D-3BO droide protocollare di aspetto antropomorfo che nella saga di Guerre stellari conosce e utilizza più di sei milioni di forme di comunicazione, fino al proverbiale traduttore universale di Star Trek che faceva persino qualcosa di più: era in grado di tradurre anche le lingue mai sentite prima di alieni appena contattati e lo faceva in modo del tutto indolore, senza cioè che l’utente si rendesse conto che l’interlocutore parlava una lingua diversa, adattando persino i gesti e il movimento delle labbra, chiunque prima o poi (magari alle prese con un aoristo greco politematico, un gerundivo passivo latino, una simpatica ragazza giapponese o un burbero contadino bernese) avrà sognato un dispositivo che annullasse magicamente ogni distanza linguistica. Prodigio che oggi non è (quasi) più un sogno ma rischia di diventare un incubo.

In un arguto articolo pubblicato sulla storica rivista culturale statunitense «The Atlantic» (ripreso opportunamente in italiano dal «Post») si rileva infatti come il miglioramento impressionante dei software di traduzione ponga in realtà una serie di insidie per quanto riguarda la comprensione e gli scambi tra culture diverse. Analizzando dati e statistiche, «The Atlantic» sottolinea come molte persone non stanno di fatto apprendendo nuove lingue in un momento storico contraddistinto dall’ampia disponibilità di strumenti con cui possono parlarle senza conoscerle. Con una pericolosa conseguenza: nella prospettiva di un mondo in cui si usano le lingue straniere senza studiarle, il rischio è di considerarle tutte equivalenti. Che sarebbe un modo molto riduttivo di intenderle. Oltre un secolo fa, contribuendo a definire il concetto moderno di «relatività linguistica», studiosi come Wilhelm von Humboldt prima e Edward Sapir e Benjamin Lee Whorf poi, teorizzarono che la lingua non è un mezzo di trasmissione del pensiero, ma un modo di interpretare la realtà stessa. Perché ci stiamo dimenticando che imparare una nuova lingua, o semplicemente cimentarsi con essa, equivale, sotto molti aspetti, ad apprendere un modo nuovo di vedere il mondo e di pensare. «Man mano che la tecnologia si normalizza, potremmo scoprire di aver consentito che le profonde connessioni umane venissero sostituite da una comunicazione tecnicamente competente, ma in definitiva vuota», ha scritto «The Atlantic». Senza trascurare un altro elemento fondamentale che ha a che fare con la democrazia, con la civile convivenza e, almeno per noi svizzeri, con la coesione nazionale: nessun traduttore universale nella fantasia o nella realtà ha infatti il potere di colmare le divisioni culturali nel modo in cui possono farlo gli esseri umani, semplicemente facendo uno sforzo di empatia e di immedesimazione nella mentalità dell’altro.

In una scena memorabile del film Il tredicesimo guerriero, tratto dal bel romanzo di Michael Crichton Mangiatori di morte ambientato nel X secolo, il raffinato e colto protagonista Ahmed Ibn Fahdlan sconvolge i suoi barbari e rozzi carcerieri vichinghi di cui si suppone ignori ogni cosa, dopo alcune settimane di prigionia e forzata convivenza in lunghe notti all’addiaccio, replicando per le rime agli insulti di uno di loro in perfetta lingua norrena. E quando stupefatto e ammirato il capo degli uomini del nord lo interroga: «Come hai imparato la nostra lingua?» lo affascina rispondendogli «Vi ho ascoltato…».

Ecco, nessuna macchina per quanto perfetta sotto il profilo sintattico e semantico potrà mai sostituire quella attitudine, certo faticosa, all’ascolto che è sempre il primo passo per capire il punto di vista e il modo di ragionare dell’altro. In un Paese che racchiude nel plurilinguismo la sua stessa ragione di esistere come «Willensnation», forte della sua unità nella diversità e della volontà di superare le differenze per vivere insieme, dovrebbe essere chiaro dove, oltre alla minaccia dell’abuso del «global english», potrebbe portarci la scorciatoia tecnologica alla Star Trek che svuota di senso lo sforzo della reciproca conoscenza delle lingue nazionali. Diventeremmo non solo molto più ignoranti ma di sicuro molto meno svizzeri.