Musica

Kurt Cobain è stato qui: un viaggio nel mondo del leader dei Nirvana

A 30 anni dalla morte del musicista, ripercorriamo le sue orme tra Seattle e Aberdeen: cosa è rimasto della leggenda del rock?
©CdT/Michele Montanari
Michele Montanari
05.04.2024 09:00

Atterriamo a Seattle in un giorno di pioggia. Non poteva essere altrimenti. La città del grunge è una grigia giungla d’asfalto. Anche se oggi non mancano i quartieri pettinati, dall’aria futuristica ed ecosotenibile. D’altronde c’è il quartier generale di Amazon, a Seattle. Persino lo store della Sub Pop ha trovato spazio nella parte «fighetta» della City. Già, proprio quell’etichetta discografica che sul finire degli anni 80 e l’inizio dei 90 dava voce ai reietti della società. Dopo il boom dei Nirvana le cose sono cambiate. Soldi a palate, perché ai tempi con la musica si poteva diventare ricchi. In periferia, invece, è tutta un’altra storia. È come ti immagini la Seattle degli anni 90 dopo aver visto l’ennesimo documentario sul grunge. È la città dei Nirvana, sì, ma anche dei Soundgarden, degli Alice in chains, dei Pearl Jam, e dei Mudhoney. È la tana di quei giovani disadattati, annoiati e autodistruttivi che, contro ogni pronostico, sono diventati icone del rock. 

©CdT/Michele Montanari
©CdT/Michele Montanari

Di droga, nelle strade, ne gira ancora tanta. E così, dagli ingegnerini salutisti che escono dal quartiere di Amazon con la camicetta slim fit e il frullato veggie in mano, all’improvviso ti trovi di fronte ai nuovi zombie. Poveri disperati che si annullano totalmente sparandosi crack, fentanyl e altra merda. Lì, sui marciapiedi, alla luce del giorno. Una piaga sociale, che esisteva già allora. Sono solo cambiati i veleni con cui uccidersi lentamente. In questa parte degli Stati Uniti tra «depressione climatica», noia e disagio non poteva che nascere lo sporchissimo Seattle sound. E a 30 danni dalla morte di Kurt Cobain certe cose sembrano sempre le stesse, anche se tutto è cambiato. Quel colpo di fucile esploso il 5 aprile del 1994 fa ancora tanto rumore.

©CdT/Michele Montanari
©CdT/Michele Montanari

Se a Seattle è possibile fare un tuffo a 360 gradi nell’universo dei Nirvana, tra cimeli e reperti storici esibiti come sacre reliquie alla mostra permanente del MoPOP (Museum of pop culture), il vero viaggio sulle tracce di Kurt Cobain parte da Aberdeen, cittadina dello Stato di Washington che diede i natali al musicista. Da Seattle sono 2 ore in auto, che scorrono veloci tra gli imponenti alberi del nordovest americano, le sconfinate aree industriali e l'immancabile pioggia. Poi, circondata dai boschi, Aberdeen ti accoglie con il suo iconico cartellone di benvenuto: «Come as you are». Vieni come sei: la frase più inclusiva di tutte, prima che fosse un obbligo, una moda svuotata da ogni significato.

©CdT/Michele Montanari
©CdT/Michele Montanari

Aberdeen non è certo terra di artisti, ma di boscaioli e pescatori. I casermoni fatiscenti degli anni 90 sono ancora lì, tra porte divelte, vetri rotti e i tanti homeless che cercano un rifugio dal freddo. Aberdeen è una città che va contro ogni logica di marketing made in USA. Gli statunitensi sono maestri nel vendere quello che hanno, anche se poco, all’ennesima potenza. Aiutiamoci con un esempio: se un posto è famoso per le patate, troveremo gadget a tema di ogni forma, colore e dimensione. Ovunque, saremo circondati dalle stramaledette patate, fino alla nausea. Aberdeen è diversa, sembra non fregargliene niente. I luoghi dedicati a Kurt Cobain sono pochi, quasi tutti realizzati dai fan dell’artista. Opere «apocrife» che devono restare nascoste, anche se rappresentano l’unico vero motivo per visitare la «ghost town» affacciata sull'Oceano Pacifico. Il personaggio scomodo, il drogato, il suicida, sembra aver oscurato lo smisurato talento musicale, almeno per i benpensanti. D’altronde, già ai tempi di quel colpo di fucile esploso 30 anni fa, il terrore per una possibile ondata di emulazione da parte dei seguaci di Cobain era fortissimo. I politici ci vanno con i piedi di piombo quando salta fuori il discorso su un monumento ufficiale, perché «che esempio diamo ai nostri giovani?». È questa la sfiga di Aberdeen: non può vendere la sua grande attrazione turistica in ogni forma, colore e dimensione. E forse è meglio così, perché chi ama i Nirvana arriva comunque.

A onor del vero, negli ultimi anni qualche passo avanti è stato fatto. Nel 2014, il 20 febbraio, in quello che sarebbe stato il 47esimo compleanno del musicista, all’Aberdeen Museum of History è stata eretta la  statua raffigurante un «Kurt Cobain piangente» (l’opera è di Randi Hubbard). Nel 2021, invece, il Dipartimento di archeologia e conservazione storica dello stato di Washington ha inserito nel registro degli edifici culturalmente importanti la villetta su East First Street, in cui Cobain visse con la sua famiglia. I racconti sull’infanzia travagliata del piccolo Kurt e su quel «leggendario divorzio» si sprecano. La casa è l’unica recintata del quartiere, perché il viavai di curiosi non si è mai placato, e da tempo il nuovo proprietario sta cercando di trasformarla in un museo dedicato a Kurt Cobain. Se ne parla da oltre un decennio, ma il progetto per organizzare tour all’interno della villetta, ripercorrendo la vita dell’artista che lì abitò dal 1968 al 1984, dovrebbe concretizzarsi a breve.

©CdT/Michele Montanari
©CdT/Michele Montanari

Poco distante, c’è il «Kurt Cobain Memorial Park», il parco «museo a cielo aperto» finanziato dai fan, poi preso a carico dalla città, nel 2015. Oltre alle due targhe dedicate a Cobain, imbrattate a più non posso da dediche di ogni tipo, a svettare è la scultura di una Fender Jag-Stang, l’iconica chitarra elettrica progettata proprio dal frontman dei Nirvana. Nei paraggi del museo, c'è l'ultima tappa obbligatoria: lo Young St.Bridge sul fiume Wishkah. Sotto al ponte dove il giovane Kurt – si narra – passò qualche notte da senzatetto ed ebbe l’ispirazione per la struggente «Something in the way» sono stati realizzati graffiti di ogni forma, colore e dimensione.

©CdT/Michele Montanari
©CdT/Michele Montanari
©CdT/Michele Montanari
©CdT/Michele Montanari

Dopo 30 anni, ciò che resta di materiale nei luoghi della vita di Kurt Cobain non è moltissimo. È invece ancora immenso il suo lascito artistico. Quel rock che 30 anni fa sembrava «alternativo», oggi è un classico. Come Elvis. Come i Beatles. Come i Led Zeppelin. Chiunque abbia amato i Nirvana, ha creduto di poterli tenere stretti a sé, come un oggetto unico ed estremamente personale, da custodire con cura. Quella musica invece è stata - ed è - di tutti, ha trascinato milioni di persone convinte di non aver un posto nel mondo. Kurt Cobain, con il suo grido disperato, è stato il portavoce involontario di chi si sentiva diverso, sbagliato, antisociale, forse allergico alla vita. Cobain ha fatto capire a una folta schiera di ragazzini incazzati con l'universo che il disagio si può trasformare in arte. E se con le sue canzoni non è riuscito a spegnere l'inferno che ogni tanto abbiamo dentro, almeno non ci ha lasciato bruciare da soli. 

È così malinconico tornare a pensare ai Nirvana. Chiedersi, ancora e ancora, perché un 27.enne pieno di talento abbia scelto di andarsene così, come una fiammata che sparisce in un istante. Eppure, allo stesso tempo, è impossibile immaginare Kurt Cobain in questo mondo di selfie sui social, schifezze plasticose create con l'IA e politicamente corretto a tutti i costi. Lui che faceva le interviste in pigiama sbadigliando in faccia ai giornalisti e cantava «Rape me» o «God is gay». Cullarsi nei ricordi è un dolore che salva la vita per l'ennesima volta, mentre nella piovosa Aberdeen osservo la casa d’infanzia di Kurt: «È solo una stupida villetta con uno sputo di giardino, ma sarà la prima cosa che comprerò. Quando sarò ricco» (cit. Ritorno a casa, Afterhours).  

©CdT/Michele Montanari
©CdT/Michele Montanari