Lugano

«La gente non mangia per vederlo giocare»

Mercoledì Federico Buffa ha portato sul palco del Palacongressi un intreccio di calcio e vita
Walter Gomez. (foto da www.cariverplate.com.ar)
Giuliano Gasperi
16.02.2024 10:04

«La gente-ya ni come-para ver-a Walter Gómez». «Le persone non mangiano nemmeno più per vedere Walter Gómez», scandito con il ritmo tambureggiante dei cori da stadio. Il ritornello ci rimbalza in mente da quando abbiamo lasciato il Palazzo dei congressi, teatro mercoledì sera dello spettacolo La Milonga del fútbol con la voce narrante di Federico Buffa, Mascia Foschi al canto e Alessandro Nidi al pianoforte. Continua a rimbalzare. Eppure quelle parole vengono da lontano, lontanissimo. Nello spazio, nel tempo, nella cultura. È la Buenos Aires degli anni Cinquanta, meta di migrazione anche per tanti ticinesi. A cantare sono i tifosi del River Plate, trascinato dalle reti di un attaccante uruguagio. Un eroe popolare, in verità. Perché a un argentino, come ha ricordato Buffa, due cose non puoi togliere: la griglia per il barbecue e un centravanti.

Passione, immaginazione, angoscia, musica, sogno, poesia, malinconia, follia: emozioni di un paese intero fluite, ora travolgenti e ora leggere, sul palco di Lugano. Emozioni incarnate da calciatori indimenticabili, per giocate e modi d’essere. Come Renato Cesarini, nato nelle Marche e partito per il Sudamerica con i genitori quando aveva un anno. Talento e viveur. Diceva che la palla era la sua amante. «Giocava come viveva e viveva come giocava». Tornato in Italia per unirsi alla Juventus, dopo una partita da fenomeno contro l’Alessandria fu avvicinato da un dirigente bianconero che gli disse più o meno queste parole: «Lo vedi, Cesarini, che prestazioni puoi fare dopo un buon sonno riposante?». Aveva passato tutta la notte a ballare nei locali della città, tornando in albergo giusto in tempo per l’ispezione mattutina.

Da allenatore – dopo aver guidato un River Plate che si guadagnò il soprannome di La Máquina: secondo Buffa, la più forte squadra offensiva della storia del gioco – Cesarini scoprì e portò alla ribalta un altro genio ribelle, quello di Omar Sivori, l’uomo dei gol impossibili, cresciuto come quasi tutti i suoi piccoli coetanei a giocare nel potrero, un tipo di campo «dove la terra si mescola con i sassi: se impari lì, poi su altri terreni la palla non devi più nemmeno guardarla». Un uomo dai forti contrasti, Sivori: propenso alla rissa, diciamo, ma anche estremamente sensibile. Fu lui a consolare Diego Armando Maradona quando, a diciassette anni, fu escluso dai convocati per il mondiale del 1978. «Escuchame pibe…» gli disse. «Ascoltami, ragazzo. Diventerai un campione, perché nel tuo cuore hai la verità profonda del fútbol».

Maradona, Sivori, Cesarini e Gomez non ci sono più. Però sembrano così vivi, mentre nelle pieghe della nostra quotidianità, tra riunioni, commissioni, tempo perso in coda o ad aspettare un messaggio, li immaginiamo partire palla al piede e inventarsi chissà quale dribbling. «La gente-ya ni come…». No, alla fine questo articolo non è la cronaca di una rappresentazione teatrale, né tantomeno la sua recensione. È un po’ tutto, forse niente. Tutta colpa di Diego, che in un pomeriggio di novembre, prima di un Napoli-Juventus, vedendo i suoi tifosi aspettare la partita sotto un forte acquazzone, pensò: «Devo regalare loro qualcosa di speciale». Punizione da fuori area, una traiettoria che non esiste, la palla che accarezza l’incrocio e si addormenta in rete. «Yo me equivoqué y pagué. Pero... la pelota no, la pelota no se mancha», affermò un giorno. «Ho commesso degli errori e ho pagato, ma la palla no, la palla non si sporca». Si dice che non sia mai entrato in campo senza sorridere.

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