Finanza

Che cosa sta succedendo (di nuovo) alla First Republic Bank?

La banca californiana, come a marzo, è al centro dell'attenzione degli investitori – Il valore del titolo è crollato in poche settimane di quasi il 95%, tanto che la capitalizzazione di mercato è di poco superiore ai 900 milioni di dollari – In tre mesi ritirati attivi per oltre 100 miliardi
© AP
Generoso Chiaradonna
26.04.2023 21:30

Dopo la bancarotta della Silicon Valley Bank e della Signature, all’origine delle turbolenze finanziarie dello scorso marzo che investirono il Credit Suisse, torna l’apprensione tra gli investitori e questa volta i timori sono rivolti alle sorti della First Republic, un’altra banca californiana già balzata agli onori della cronaca nelle scorse settimane con il mega deposito da 30 miliardi di dollari da parte delle undici principali banche USA. Si trattò di un’iniziativa per calmare i mercati senza il coinvolgimento diretto del governo che anche questa volta si tiene apparentemente a distanza.

E non era la prima volta che le grandi banche cooperavano incoraggiate dal governo. Era già successo nel crollo dei mercati del 1907, quando il finanziere John Pierpont Morgan, fondatore dell’omonima banca, chiuse letteralmente in una stanza tutti i maggiori finanzieri di allora per raggiungere un accordo. Morgan riuscì nella sua impresa grazie anche al governo che partecipò con 25 miliardi di dollari in depositi. Nel 1998, con il tracollo di Long-Term Capital Management, la Fed di New York riuscì a raccogliere un fondo di salvataggio da 3,6 miliardi con i contribuiti dei maggiori creditori di Wall Street.

Un’operazione che non ha tranquillizzato gli investitori visto che negli ultimi tre mesi hanno ritirato più di 100 miliardi di dollari di attivi da First Republic. Una «corsa allo sportello» resa nota ieri in occasione del bilancio trimestrale che ha chiuso comunque con un utile di 269 milioni di dollari (-33% rispetto a un anno prima). E nonostante l’annuncio di voler ridurre la sua forza lavoro del 25%, gli azionisti hanno dato l’ordine di vendere. Il valore dell’azione quotata a Wall Street è crollato. All’inizio della settimana ci volevano ancora circa 15 dollari per un titolo First Boston. Oggi è scesa sotto i 5 dollari per poi ritracciare a poco più di 6 dollari quando è emerso che la banca sta valutando la vendita (o svendita, a seconda dei punti di vista) di 50-100 miliardi di dollari di asset nel tentativo di reperire risorse; i potenziali acquirenti potrebbero ricevere garanzie o azioni privilegiate come incentivo all’acquisto a prezzi superiori a quelli di mercato. A titolo di paragone, all’inizio dell’anno l’azione valeva ancora oltre i 140 dollari. Una perdita di valore enorme, visto che la capitalizzazione di mercato della banca è per ora sotto il miliardo di dollari.

Too big to fail, i voti della Finma

Intanto in Svizzera PostFinance dovrebbe rivedere la sua strategia per ricapitalizzarsi in caso di emergenza. È quanto emerge dalla valutazione annuale da parte della Finma, l’autorità di vigilanza sui mercati finanziari. Stando al rapporto reso noto oggi, «sono stati fatti passi avanti nei piani di emergenza delle banche sistemiche svizzere, ma i progressi non sono ancora sufficienti per tutti gli istituti, in particolare per PostFinance».

Non essendo andata a buon fine la revisione della Legge sull’organizzazione della Posta, «PostFinance deve rivedere la propria strategia per ricapitalizzarsi in caso di emergenza», indica la Finma in un comunicato. Al contrario, i piani di Raiffeisen adempiono per la prima volta le esigenze concernenti il mantenimento senza interruzioni delle funzioni rilevanti in caso di possibile insolvenza: secondo i funzionari bernesi la banca in forma di cooperativa «è in grado di predisporre capitale sufficiente per mantenere senza interruzioni la propria attività operativa anche in caso di problemi».

Lo schema d’emergenza della Banca cantonale di Zurigo (ZKB) resta invece non ancora attuabile, in quanto la società non ha predisposto fondi sufficienti per una ricapitalizzazione. Essa ha tuttavia iniziato a costituire il capitale corrispondente mediante l’emissione di strumenti di bail-in (cioè obbligazioni che vengono convertite in capitale proprio in caso di crisi). C’è anche un capitolo dedicato a UBS e Credit Suisse, ormai in procinto di diventare un’unica banca. Secondo gli ispettori della Finma i due istituti avrebbero «migliorato ulteriormente le loro capacità di risanamento e di liquidazione. Le esigenze nell’ambito della continuità operativa sono state sostanzialmente adempiute. I piani d’emergenza svizzeri continuano a essere considerati attuabili».

Il rapporto della Finma si riferisce alla situazione nel 2022 e non considera quindi i problemi che hanno interessato Credit Suisse nel primo trimestre di quest’anno. «La vicenda mostra l’importanza di una concreta preparazione in caso di crisi», afferma a questo proposito il direttore della Finma Urban Angehrn, citato nella nota. Allo stesso tempo, è chiaro che dalla crisi di Credit Suisse si possono trarre importanti insegnamenti per la preparazione al futuro: la Finma apporterà il suo contributo affinché questo avvenga». 

In questo articolo: