Dall'Italia in Svizzera per morire: «Qui ho potuto scegliere»

«Elena ha appena confermato la sua volontà: è morta, nel modo che ha scelto, nel Paese che glielo ha permesso». È il messaggio che Marco Cappato, tesoriere dell'Associazione Luca Coscioni, ha postato sui social network questa mattina. Il seguito di un altro, che risale a ieri: «Sto accompagnando in Svizzera una signora gravemente malata. Solo lì può ottenere quello che deve essere un suo diritto. Sarà libera di scegliere fino alla fine». Un caso di suicidio assistito, l'ennesimo. Che rende più ampio il confine tra il nostro Paese e l'Italia.
Elena Adelina e gli altri
Elena, 69.enne veneta, era malata terminale di cancro. Aveva ricevuto la diagnosi di microcitoma polmonare a inizio luglio 2021. Da subito i medici le avevano detto che avrebbe avuto poche possibilità di uscirne. Dopo alcuni tentativi di cure, le è stato detto che c’erano pochi mesi ancora di sopravvivenza, con una situazione che, via via, sarebbe diventata sempre più pesante. La sua vicenda è stata raccontata dall'Associazione Luca Coscioni e dai media locali, che le hanno assegnato il nome di fantasia «Adelina». «La donna – scriveva ieri l’associazione Luca Coscioni – è affetta da una importante patologia oncologica polmonare irreversibile con metastasi e ha chiesto di essere accompagnata nel Paese elvetico per potere accedere legalmente al suicidio assistito». Il Resto del Carlino riporta le parole della donna, che accompagnano la sua decisione di recarsi in Svizzera, a Basilea: «Ho detto a mio marito e alla mia famiglia: sono davanti a un bivio. Posso prendere una strada un po' più lunga che mi porta all'inferno. E un'altra, più breve, che mi porta in Svizzera. Ho scelto la seconda. Ho poi detto a mio marito che se avesse provato a dissuadermi, fra un mese o due, quando mi avrebbe visto sofferente se ne sarebbe pentito».
Quello di Elena è solo l'ultimo di tanti casi. Le cronache, a metà luglio, hanno riferito della morte, a Zurigo, dell'«ex re della dolce vita di Manhattan», Mark Fleischman, che ha fatto ricorso al suicidio assistito. In un'intervista il mese scorso al New York Post aveva rivelato di avere una malattia neurologica degenerativa che gli impediva di camminare o vestirsi da solo, di aver tentato già un paio di volte di togliersi la vita con una overdose di sonniferi, ma che in entrambi i casi era stato salvato in ospedale. Ci sono limiti al suicidio assistito in California, dove Fleischman abitava dopo aver lasciato New York, così l'ex impresario si era rivolto a Dignitas.
L'Italia e la «sentenza Cappato»
Ma la ricerca della «dolce morte» nel nostro Paese è un argomento che tocca soprattutto gli italiani. Della trasferta di Elena in Svizzera il 1. agosto, Marco Cappato ha parlato di «un viaggio lungo, oltre otto ore dal Veneto, un viaggio reso necessario dal fatto che non avrebbe potuto ottenere questa possibilità in Italia, perché la sentenza della Corte costituzionale esclude che possano essere aiutate a morire persone che non siano tenute in vita da trattamenti di sostegno vitale». Per Marco Cappato si tratta di una (nuova) disobbedienza civile, dal momento che la persona accompagnata non è «tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale», quindi non rientra nei casi previsti dalla sentenza della Corte costituzionale sul caso Cappato\Dj Fabo per l’accesso alla tecnica in Italia. In Italia, infatti, il suicidio assistito è possibile e legale in determinate condizioni della persona malata che ne fa richiesta: «persona affetta da una patologia irreversibile, fonte di intollerabili sofferenze, pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli e tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale», sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del Servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente. Cappato, per il «caso Elena» rischia dunque fino a 12 anni di carcere per l’accusa di aiuto al suicidio.
In Svizzera
Nel 2019 1.196 persone hanno fatto ricorso al suicidio assistito in Svizzera secondo i dati dell'Ufficio federale di statistica (UST). Nel 2018 sono stati 1.176, nel 2017 1.009 e l'anno precedente 928. «Nel 2014 l’UST ha registrato presso le persone residenti in Svizzera 742 casi di suicidio assistito, ovvero l’1,2% di tutti i casi di morte. Rispetto all’anno precedente, si registra un incremento del 26%. Dal 2008 questa cifra è aumentata anno dopo anno», scriveva l'UST nel suo secondo rapporto sul tema. Nel caso di suicidio assistito (chiamato anche eutanasia volontaria), si procura al candidato al suicidio una sostanza letale che questi assume di propria spontanea volontà senza aiuto esterno.
In Svizzera, le prime organizzazioni di suicidio assistito sono nate quarant'anni anni fa. Organizzazioni come EXIT e Dignitas prestano aiuto al suicidio secondo quanto disciplinato all’articolo 115 del Codice penale svizzero, che non vieta l’aiuto al suicidio se non viene prestato per motivi egoistici. Nella maggior parte degli Stati, l'eutanasia attiva o il suicidio assistito sono proibiti. La Svizzera è uno dei pochissimi Paesi in cui anche gli stranieri possono ricorrere al suicidio assistito. Nel 2020 sono state 913 le persone, nella Svizzera tedesca e in Ticino, ad aver fatto ricorso all'aiuto di Exit per lasciare questo mondo. Nello stesso anno sono state 11.000 le persone a essere diventate membro dell'associazione attiva nel suicidio assisto. «L'aumento dei membri continua così ininterrotto da dodici anni», si legge in un comunicato di febbraio 2021. In totale hanno effettivamente fatto utilizzo dell'aiuto 913 persone, pari a 51 in più rispetto al 2019. In molti casi si trattava di individui malati terminali di cancro o affetti da gravi dolori cronici.
Lo scorso maggio la Federazione dei medici svizzeri FMH dopo anni di discussioni ha accolto le nuove direttive dell'Accademia svizzera delle scienze mediche sul suicidio assistito. Che esplicitano quanto era in precedenza implicito: il suicidio assistito di coloro che sono in buona salute non è difendibile da un punto di vista medico-etico. È necessario dimostrare di convivere con una sofferenza insopportabile, a causa di una malattia o di limitazioni funzionali, e l’assenza o il rifiuto di alternative. E viene richiesto un maggiore coinvolgimento di medici e famigliari. Nonostante fosse inizialmente contraria ritenendo che il concetto di «sofferenza insopportabile» rimandasse a «una nozione giuridicamente indeterminata che porta molta incertezza per il corpo medico», la FMH ha deciso di seguire quanto già indicato nel 2018 dall’Accademia Svizzera delle Scienze Mediche (ASSM) nel capitolo delle sue direttive dedicato al comportamento che i professionisti della sanità devono tenere di fronte al desiderio di morte espresso da pazienti (linee guida che non pongono vincoli giuridici, ma la cui violazione potrebbe portare a sanzioni per il medico). «Il medico deve essere in grado di capire il desiderio del paziente di non voler vivere in una condizione diventata insopportabile, prendendo in considerazione gli antecedenti della persona e facendo ripetuti colloqui». Ogni medico è libero di considerare o meno un tale atto.