Intervista

Dentro la Francia dei gilet gialli

Parla Francesco Saraceno, vice direttore del Centro di ricerca sulle congiunture economiche di Sciences Po a Parigi
(foto Keystone)
Osvaldo Migotto
05.12.2018 19:52

In Francia la rivolta dei gilet gialli è tutt’altro che domata, nonostante i tentativi di dialogo con i dimostranti del Governo Macron. Cosa cova nella società francese dietro le proteste scatenate dall’annuncio di un aumento delle accise sui carburanti fossili e di altre tasse? Abbiamo sentito il parere di Francesco Saraceno, vice direttore dell’OFCE, il Centro di ricerca sulle congiunture economiche di Sciences Po (Parigi), dove insegna macroeconomia internazionale ed europea. Il professor saraceno è

anche membro del comitato scientifico della LUISS School of European Political Economy e i suoi editoriali appaiono su Le Monde, Libération, Corriere della Sera e Sole 24 Ore.

Professor Saraceno, la scorsa settimana un editoriale della Süddeutsche Zeitung elogiava il coraggio di Macron nell’imporre ulteriori sovraccosti sull’energia fossile. Viste le rivendicazioni dei gilet gialli di questi giorni sembra però che l’aumento del prezzo dei carburanti abbia messo a nudo un malessere sociale ben più esteso. Quali sono i fattori scatenanti di questa rivolta contro il Governo?

«La miccia che ha fatto scoppiare la rivolta è chiaramente l’aumento del prezzo del gasolio, mentre il problema serio è che la classe media e medio-bassa francese ha visto ridursi il potere d’acquisto dal 2010 ad oggi senza interruzione; sia sotto la presidenza di François Hollande che sotto quella di Emmanuel Macron. Quindi in qualche modo c’è un malessere che possiamo considerare analogo a quello che ha portato al voto sulla Brexit nel Regno Unito e all’elezione di Donald Trump negli Stati Uniti. Va poi ricordato che in Francia la prima riduzione dei servizi pubblici, delle allocazioni familiari e del welfare state è avvenuta sotto la presidenza del socialista Hollande, mentre Macron ha solo completato l’opera e aggiunto solo un piccolo tocco, rappresentato dalla riduzione delle tasse ai più ricchi. Quindi c’è perdita di potere d’acquisto della classe media e sentimento di ingiustizia sociale, ossia una miscela esplosiva».

Il premier Edouard Philippe ha detto che la rabbia esplosa in questi giorni in Francia arriva da lontano, trasmessa di generazione in generazione. Ma le statistiche economiche e sociali di questi anni non potevano servire da campanello d’allarme per la classe politica?

«Assolutamente sì. Non ci sono solo le statistiche sociali ed economiche ma anche i lavori di analisi degli economisti. Basti pensare alla risonanza che ha avuto il lavoro di Thomas Piketty che è riuscito a vendere milioni di esemplari di un volume di mille pagine piene di grafici. Nel Paese c’è una sensibilità alla ridistribuzione del reddito che è stata assolutamente trascurata dai dirigenti politici. Per cui sono assolutamente d’accordo con la sua osservazione».

Marlène Schiappa, segretaria di Stato di Macron ha affermato che il Governo valuterà gli effetti della trasformazione dell’imposta di solidarietà sulla ricchezza in imposta sulla ricchezza immobiliare. E se si scoprirà che i capitali risparmiati non sono stati reinvestiti nell’economia francese, il Governo reintrodurrà di nuovo l’imposta di solidarietà sulla ricchezza. Potrebbe essere una buona mossa?

«Questo servirebbe a ridurre almeno un po’ questo sentimento di ingiustizia che è stato generato dalle politiche del presidente Macron. Sarebbe dunque un’ottima cosa. Non aumenterebbe il potere d’acquisto della classe media, ma sarebbe una risposta a un malessere molto profondo e radicato: ci sono ospedali che chiudono, le scuole che non vengono finanziate, professori che mancano. Quindi questa mossa non basta, ma dal punto di vista simbolico vuol dire che il presidente ha capito che dare ai più ricchi non genera crescita e benessere per tutti».

In Europa non è solo il Governo francese ad avere difficoltà nell’allestire manovre di bilancio e politiche economiche in grado di favorire crescita ed occupazione senza pesare troppo sul debito pubblico. Il suo recente libro ‘La scienza inutile’ può dar qualche valido suggerimento ai leader europei?

«Nel mio libro sostengo che l’esercizio della politica economica è un esercizio complesso, quindi non bisogna pensare che riducendo le tasse ai ricchi questi iniziano a investire, portando ricchezza per tutti. Non bisogna neppure pensare che politiche di austerità vadano bene in qualsiasi situazione. Non bisogna neppure credere che manovre di tipo keynesiano, tipo quelle adottate dal Governo italiano, vadano bene in ogni occasione. Bisogna invece che chi decide le politiche economiche metta le mani nell’impasto e se le sporchi cercando di capire la situazione. Se prendiamo l’esempio della manovra di bilancio italiana non c’è nulla di scandaloso in un Governo che prova a rilanciare la crescita dopo anni di stagnazione; però se guardiamo i dettagli delle misure della legge finanziaria sono misure il cui impatto sulla crescita sarà molto limitato. Per cui questa è una manovra sbagliata perché semplifica la realtà economica: pensano che basti il deficit per produrre crescita, e invece non è così. Dall’altra parte chi critica il Governo italiano dicendo che bisogna ridurre il debito fa l’errore opposto; ancora una volta si semplifica e non si coglie la complessità della situazione reale. Quindi il mio libro è una perorazione della complessità dell’economia e invita a rifuggire le ricette semplicistiche».

Che ruolo possiamo attribuire alla globalizzazione nelle fratture sociali presenti in numerosi Paesi europei?

«Un ruolo importante, in quanto il motivo per cui si sono amplificate le disuguaglianze rispetto agli anni Ottanta è che nel mondo globale è molto più difficile immaginare un ruolo per uno Stato regolatore, di destra o di sinistra. Negli anni Cinquanta c’era uno Stato che regolava l’economia e regolando l’economia garantiva che non ci fossero troppe divergenze. Questo sistema è andato in crisi quando lo Stato ha perso importanza. Per questo ritengo che la soluzione sia di cercare un’accresciuta cooperazione internazionale, che però in questo contesto storico è quasi utopico immaginare. Quello che prima faceva lo Stato nazione, oggi lo dovrebbe fare la comunità degli Stati. Come ancora non si sa, perché ogni Stato è mosso da egoismo nazionale e quindi compete con gli altri invece di cooperare con gli altri. E nel momento in cui lo Stato regolatore non c’è, il mercato è lasciato a se stesso e crea dei problemi che erano ben noti agli economisti prima del 1930. Ossia problemi di crisi, di disuguaglianze eccessive e così via. Oggi se lo Stato francese prova a regolare l’economia, i capitali e le persone più ricche se ne vanno a vivere in un altro Paese».

In questo articolo: