Fabio Polese: «L’ufficio mi annoiava, sono partito verso le guerre dimenticate»

Certe passioni sono così forti da sembrare malattie. Fabio Polese dopo anni d’ufficio non ha più retto, si è licenziato ed è andato a fare il cronista di guerra in Birmania. Da allora non ha più smesso di essere un reporter dagli scenari più caldi del pianeta. Un’esperienza da cui è nato il libro Borderline. Storie dai confini del mondo (Eclettica Edizioni).
Fabio Polese, cosa racconti nel tuo libro?
«È una raccolta dei miei viaggi e delle mie avventure per dare spazio a tutte quelle cose che purtroppo non hanno trovato spazio nei giornali e nelle riviste con le quali collaboro. A differenza di un reportage giornalistico c’è anche qualche considerazione in più. Per esempio, spiego come si fa a organizzare un reportage. Non è che uno che vuole raccontare una guerra decide, prende e parte senza prepararsi. Bisogna conoscere il Paese, darsi i contatti giusti».
Dove hai incontrato per la prima volta la guerra?
«Il mio primo viaggio giornalistico l’ho fatto in Irlanda del Nord. Ma il primo impatto con la guerra è stato nel Sud est asiatico, in Birmania. Per poter andare in Birmania mi sono recato in Thailandia e adesso è lì che vivo».
Ti consideri un giornalista di guerra?
«Mi considero un reporter. Nella mia vita ho raccontato sia guerre sia storie dimenticate di persone che soffrono. E anche quelle tradizioni che vanno pian piano scomparendo».
Spesso il giornalista che racconta la guerra lo fa come «embedded», cioè come infiltrato nelle file di un fronte militare preciso. Una visione privilegiata del conflitto, ma anche parziale...
«E infatti non sono mai andato in questo modo. Anche perché ho sempre cercato di documentare i conflitti più sconosciuti. È ovvio che se vai da solo è diverso che se vai con una parte o con l’altra. Io ho seguito soprattutto le guerriglie, per esempio in Myanmar. Sono stato con i guerriglieri, ho vissuto con loro, ho cercato di capire che cosa li portava a combattere. La stessa cosa ho fatto in Donbass con i miliziani filorussi e nel Sud delle Filippine, con i ribelli musulmani. Sono stato anche a Marawui durante l’assalto alla cittadina che è stata occupata per circa sei mesi dall’ISIS locale. In quel caso sono stato con l’esercito regolare. Cerco di fare così il giornalismo, se fai l’embedded invece ti fanno vedere e fare solo quello che vogliono loro».
L’assalto di Marawi, detto per inciso, era iniziato il 23 maggio 2017 e vedeva opposte le forze di sicurezza del governo delle Filippine e gruppi paramilitari secessionisti di Abu Sayyaf e Maute.
Come fai a finanziarti quando parti per servizi giornalistici di questo tipo? I media occidentali, infatti, pagano i reportage, ma quasi mai le spese per realizzarli...


«Non mi finanzia nessuno e all’inizio è stata molto dura. Adesso, dopo anni, sai chi può comprare una cosa o chi può comprarne un’altra. In realtà è questo il bello, e il rischio, di essere freelance: non hai padroni, non hai nessuno che ti dice ‘devi raccontare questa cosa in questo modo’».
Ma il problema di finanziarsi resta molto concreto, immagino.
«Certo. Io collaboro con diverse testate e ultimamente sono sempre riuscito a vivere con questo lavoro. Non è facile, soprattutto in Italia dove il settore degli esteri non è molto considerato. Spesso si pensa di coprirlo con l’informazione via internet. Essere presenti sul posto, cercare di capire... è diventato quasi un di più. Ma ci sono ancora dei media che vogliono documentare per davvero quello che sta succedendo. Poi ci sono iniziative particolare. Io collaboro con ‘Il Giornale’ che ha fatto un progetto che si chiamava ’Gli occhi della guerra’ dove i lavori proposti dai freelance erano completamente pagati dal crowdfunding».
Ritieni che il tuo sia un lavoro pericoloso?
«I rischi, soprattutto se vai in luoghi pericolosi, ci sono sempre. Ma fondamentalmente è la ragione che mi fa fare questo mestiere. Sei cosciente che ci sono dei rischi, cerchi di eliminarli tutti ma sai in partenza che è impossibile. Può sempre succedere il peggio. L’altro lato della medaglia è che tutto questo ti rende vivo: conosci la differenza tra vivere e sopravvivere».
Dove hai rischiato di più?
«Soprattutto nel Donbass, dove mi è capitato che da un momento all’altro cominciavano a spararci addosso da tutti le parti. Devo dire che in quel momento neanche riesci a pensarci».
Ma dopo sì. Non ti è passata la voglia di fare questo mestiere così pericoloso?
«No. Ho iniziato a fare il reporter perché leggevo degli articoli e mi dicevo: non credo che le cose stiano veramente così. Voglio andare a vedere. L’ho fatto con un certo idealismo, sapendo che dovevo mettermi in gioco, che c’era un’avventura da affrontare. È un aspetto che c’è e che conosci in questo mestiere. Se no non lo faresti».
E il prezzo da pagare per la tua vita privata? Gli amori, la famiglia?
«Mi sono sposato qualche settimana fa. E non ho mai avuto problemi nella vita sentimentale perché ho sempre messo le cose in chiaro. Certo, devi trovare delle persone che ti capiscano, lo stesso vale per la famiglia. Se capiscono che sei felice e riesci a vivere solamente così, trattenerti sarebbe come ucciderti. La vita non vale per quanto dura, ma per come la vivi».
Non riusciresti più a vivere come prima?
«Io ho iniziato a fare questo mestiere perché stavo in ufficio di grafico sei ore al giorno, col mio stipendio, le vacanze comandate e le mie cose. Ma a un certo punto ho capito che non era quella la vita che volevo. Non riuscivo più ad avere rapporti con gli altri, non riuscivo neppure a dormire perché avevo quasi in odio tutte queste cose. Così mi sono licenziato e sono partito. Sono venuto in Thailandia per seguire la guerra dei Karen».
I Karen sono un gruppo etnico concentrato soprattutto in Birmania e in Thailandia. Alcuni di loro combattono il governo centrale dal 1949 per chiedere la creazione di uno stato federale che lasci ampia autonomia allo Stato Karen.


Perché hai scelto proprio questa guerra?
«Perché era quella per me più romantica, la più lunga al mondo, la più sconosciuta, quella di cui nessuno parlava. Ho cercato i contatti, ho scoperto che l’unico modo per arrivare da loro era andare in Thailandia e entrare nel loro territorio dalla giungla. Così ho fatto. È stata una delle storie che hanno cambiato completamente la mia vita, perché quando sei a contatto con delle persone che hanno una vita completamente diversa dalla tua, che ancora nel Duemila combattevano per la propria terra e non per soldi o per petrolio, che sapevano accontentarsi di campare con molto poco, la vita ti cambia. Ho anche scoperto che non tutto è bianco e non tutto è nero, che non tutti i buoni sono buoni per davvero e non tutti i cattivi sono cattivi per davvero...».
Cosa ricordi, in particolare, dell’esperienza in Ucraina?
«Nel libro racconto un’esperienza molto particolare perché ho trascorso, per esempio, una notte con i miliziani filorussi nel giorno in cui avevano ricevuto la paga».
Cosa vuol dire?
«Vuol dire che erano tutti ubriachi, che circolava vodka all’infinito. Ecco: io mi sono trovato in mezzo a loro che mi offrivano vodka in continuazione e intanto c’erano i combattimenti. In teoria non potrebbero fare la guerra da ubriachi, sarebbe proibito, ma ti assicuro che nel giorno di paga non è così. Insomma, è stata una nottata di delirio. Forse è un racconto poco giornalistico, perché spiego che anche io sono stato con loro a bere. Ricordo che la mattina dopo dei soldati mi hanno detto ‘Non è vero che sei italiano, tu sei russo perché bevi come noi e non hai paura come noi’».

DA SAPERE
Il libro
Tra le strade inesplorate della Thailandia a bordo di pick-up scassati o dentro a vecchie Mercedes con i miliziani palestinesi nel sud del Libano. Nella giungla della Birmania Orientale al seguito della guerriglia Karen, o con i ribelli musulmani nell’isola filippina di Mindanao. Nei sobborghi di Belfast insieme a ex combattenti dell’Ira tra pinte di Guinness e racconti pirotecnici. O nelle trincee in prima linea del Donbass, nella giornata di paga per i soldati filorussi, Queste sono alcune delle storie in cui il reporter Fabio Polese ci fa immergere su Borderline. Storie dai confini del mondo (Eclettica Edizioni, 120 pagine, 14 euro), appena uscito in libreria.
L’autore
Fabio Polese è nato in provincia di Perugia nel 1984, è giornalista e fotoreporter freelance di base nel nord della Thailandia. Per Eclettica Edizioni ha scritto Le voci del silenzio. Storie di italiani detenuti all’estero (2012), Strade di Belfast. Tra muri che parlano e sogni di libertà (2015), Terra sacra e guerriglia (2018) e Sak Yant, inchiostro magico. Tatuaggi sacri Thai (2019). Per Mursia, I Guerrieri di Dio. Hezbollah: dalle origini al conflitto in Siria (2017). Il suo sito personale è: www.fabiopolesereporter.com



