«La frammentazione globale minaccia la piazza finanziaria»
Già ambasciatore a Roma, Londra e Bruxelles e poi rappresentante di UBS e Credit Suisse nella capitale europea, Alexis Lautenberg si esprime sulla vicenda della seconda banca svizzera. A suo avviso occorre consolidare i legami con i partner con cui condividiamo gli stessi valori rafforzando il sistema finanziario globale.
La crisi del CS non è un fulmine a ciel
sereno. Le crisi si sono moltiplicate negli ultimi decenni per gli istituti finanziari
svizzeri di valenza internazionale. Nel 2008 la Confederazione aveva già
salvato dal tracollo UBS prestandogli 6 miliardi e fornendogli una garanzia di
54 miliardi. C’è un fil rouge che lega queste crisi? Le banche svizzere
faticano a far fronte a un contesto finanziario internazionale sempre più
instabile e agguerrito?
«Direi che l’immediatezza di questa crisi può
essere definita come un fulmine a ciel sereno ma certamente non la crescente
fragilità del Credit Suisse. Non dimentichiamo la serie di scandali, tutti
estremamente costosi, come pure i tentativi di riposizionamento tra le due
grandi banche degli ultimi anni. Ciò detto, le cause degli episodi del 2008 e
di quello odierno, nonché le circostanze dei due salvataggi sono assai diverse.
Come pure il loro contesto internazionale».
A dire il vero, già nel 1998, a seguito di
una class action negli Stati Uniti, la vicenda degli averi ebraici in giacenza
non restituiti dalle banche svizzere si è saldata per UBS e CS con un
risarcimento miliardario. E nel 2014 la Svizzera si è vista costretta a
sottoscrivere l’Accordo FATCA con gli USA che ha posto fine al segreto bancario
elvetico. Volente o nolente, la piazza finanziaria svizzera non è più un caso
speciale e non può applicare regole diverse da quelle internazionalmente
condivise. Ma queste regole esistono o prevale la legge del più forte?
«Il vero mutamento paradigmatico è
intervenuto nel 2008 durante e a partire dalla fine della crisi finanziaria con
l’istaurazione del G20/Financial Stability Board, l’ente di coordinamento delle
sedi multilaterali a vocazione economica. È quindi a tale livello che vennero
sviluppati e adottati i princìpi delle regolazioni necessari per salvaguardare
la stabilità dei sistemi finanziari. A ogni giurisdizione, in seguito, il
compito di tradurre questi impegni su scala nazionale e regionale, come nel
caso dell’Unione europea. Con il G20 al livello dei capi di Governo si
raggiunse in un certo senso l’apice istituzionale della globalizzazione sulla
base di princìpi e logiche di stampo occidentale. Purtroppo, con la guerra in
Ucraina, le tensioni con la Cina e le relative sanzioni, il quadro globale sta
frammentandosi davanti ai nostri occhi».
Nel 2013 CS e UBS decidono di creare lo Swiss
Financial Council (SFC) e lei viene chiamato a presiederlo, con al suo fianco
calibri da novanta come Urs Rohner, presidente del CS e Axel Weber, presidente
di UBS. Questo organo di difesa degli interessi delle grandi banche svizzere è
stato creato per cercare di prevenire altre crisi? Qual era il suo scopo?
«Si e no: la missione del SFC era e rimane
quella di una comune piattaforma di politica europea, in prima linea, dei due
grandi istituti finanziari. Quindi il nesso con gli sviluppi sopra indicati è
evidente, visto che l’UE è andata dotandosi probabilmente del più complesso
dispositivo di regolamentazione del Mercato interno. Per un Paese terzo, quale
la Svizzera – e in assenza di un accordo sui servizi (finanziari) – andava
creato, da un lato, un monitoraggio dettagliato del nuovo corpo legislativo e
regolamentare, alfine di tenerne conto a livello interno nostro e, d’altro
lato, bisognava contribuire all’elaborazione di una risposta per far fronte ai
nuovi ostacoli all’accesso del mercato comunitario. Occorreva insomma risolvere
in modo soddisfacente le procedure riguardanti le equivalenze europee nei
confronti della Svizzera. Ciò detto, lo Swiss Financial Council è sempre stato
molto attento a tutto quel che attiene alle regole di concorrenza -
particolarmente severe nell’UE - restando fondamentalmente aperto all’entrata
nel SFC di altre istituzioni e associazioni finanziarie svizzere. Le nuove
circostanze, dopo quanto accaduto al CS, potrebbero essere l’occasione,
finalmente, per procedere a un allargamento della piattaforma».
Quali cambiamenti nel contesto internazionale
(finanziario e non) rendono più difficile, per le grandi banche svizzere,
reggere l’urto?
«Sulla china discendente dall’apice della
globalizzazione osserviamo nuove aggregazioni strategiche e/o tattiche.
Allorché la Russia è stata virtualmente estromessa, la Cina tenta di dare la
propria impronta ai sistemi globali. L’area occidentale si è riunita e opera
essenzialmente a livello del G7+ ed è quest’ultimo gremio che porta avanti una
cooperazione rafforzata in aree strategiche, tra cui il settore finanziario e
dei pagamenti, le materie prime, l’energia e ovviamente la difesa. In questi
ambiti la cooperazione avviene in modo bilaterale o plurilaterale, sempre più
sovente al di fuori delle istanze multilaterali classiche. Venendo a mancare un
quadro di riferimento superiore, la propensione dei grandi attori mondiali è
quella di imporre il loro ordine economico e giuridico ovunque possibile.
Niente indica che tale tendenza sparisca a breve».
La Svizzera ha un Dipartimento delle finanze
che permette di tenere in ordine i conti del Paese ma non ha un Dipartimento
del tesoro che permetta di operare strategicamente a livello internazionale. È
un problema?
«La nostra cultura politica evita, nella
misura del possibile, sistemi istituzionali forti. E sono gli anglosassoni e
Paesi come l’Italia e la Francia (contrariamente alla Germania, l’Austria e gli
scandinavi) a essersi dotati di un vero Ministero del Tesoro, che nel dubbio
sovrastano il peso di quella del bilancio. La creazione, a livello federale,
della SIF (Segreteria di Stato per le questioni finanziarie internazionali) è
senz’altro un passo nella buona direzione ma quest’ultimo deve trovare il suo
riflesso a livello politico. Non dimentichiamo che fino al nostro ingresso nel
Fondo monetario internazionale nel 1992, la rappresentanza esterna in materia
era largamente coperta dalla Banca nazionale. Contrariamente agli Stati membri
dell’UE, che si ritrovano sistematicamente a tutti i livelli, noi dovremmo fare
uno sforzo addizionale in termini di contatti e di presenza in questo settore
di grande importanza per il nostro Paese».
Prima del 1998 c’erano tre istituti
finanziari svizzeri di rilevanza internazionale, dopo due e oggi una soltanto.
Per salvare UBS ci sono voluti 60 miliardi della Confederazione. Per salvare il
CS più di 200. Se ci sarà una prossima crisi, la Banca nazionale e la
Confederazione saranno ancora in grado di salvare l’unica grande (enorme) banca
svizzera di rilevanza mondiale? Il colosso UBS è un rischio troppo grande per
la Svizzera?
«Non credo che vi sia un numero dato a priori
di grandi banche adeguato per un determinato Paese, segnatamente per la
Svizzera. Benché taluni dati strutturali specifici, come per esempio la
propensione al risparmio, giochino un certo ruolo, due mi sembrano le variabili
determinanti di cui occorre tener conto: 1. La concorrenza, sia in Svizzera
come nei principali mercati; 2. La sorveglianza sia prudenziale che sistemica.
Quest’ultima necessita di una larga cooperazione con i regolatori dei
principali mercati di operazione delle istituzioni finanziarie svizzere e delle
competenze d’intervento allargate rispetto a oggi. Alla luce delle circostanze
di quest’ultimo salvataggio va ovviamente sottolineata la criticità del
rapporto tra la nuova UBS e le istituzioni federali. In altre parole,
l’avvenire della piazza finanziaria svizzera sarà determinato dalla sua
solidità intrinseca come pure dalla sua concorrenzialità. L’elemento delle sue
masse critiche evolverà sull’asse del tempo».
Ma è inevitabile che il Governo e la Banca
nazionale diano garanzie miliardarie a grandi banche che sono istituti privati
in un contesto di crescente instabilità finanziaria globale? Se la banca fa
errori e fallisce, devono essere i contribuenti a salvarla?
«Anzitutto
va detto che gli attuali sviluppi negli Stati Uniti e non solo sembrano
piuttosto andare in tutt’altra direzione. Intanto, non sappiamo ciò che ci
riserva perfino l’avvenire prossimo. L’episodio del CS è stato contrastato in
modo inedito e sotto una fortissima pressione del tempo secondo schemi
(perlomeno in parte preparati) ma comunque non secondo i piani classici di una
risoluzione bancaria ordinaria. Gli attori dell’episodio del CS hanno
sottolineato che non si è trattato di una risoluzione ma di un’operazione
commerciale. Può darsi. Ma se si fosse optato ad esempio per una
nazionalizzazione limitata nel tempo non credo che l’operazione sarebbe stata
meno onerosa per la BNS e infine per l’erario pubblico. Ne consegue che
probabilmente bisognerà rivedere il dispositivo a monte, affinché i regolatori
nazionali e internazionali possano intervenire a fronte di sviluppi
problematici a livello di istituzione e/o del sistema. Un esercizio che
prenderà anni. È ovvio che la Svizzera rimane vulnerabile, ragion per cui
abbiamo ogni interesse a collaborare in modo proattivo alla definizione di
meccanismi che tengano conto dell’evoluzione del contesto globale come pure di
nuovi equilibri di bilancio delle istituzioni finanziarie».