Il portavoce dell'ANP critica Biden: «Su Gaza, gli USA non hanno un piano»

«Non c’è né Hamas né Fatah. L’unico rappresentante del popolo palestinese è l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina. Solo con noi e con il suo presidente, Mahmoud Abbas (Abu Mazen, ndr), bisogna parlare». È perentorio, Nabil Abu Rudeineh, vicepremier e ministro dell’Informazione palestinese. Politico di lungo corso, è nel comitato centrale di Fatah ed è anche portavoce del presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), posizione che ricopriva pure con Yasser Arafat.
Lo incontriamo nel palazzo presidenziale di Ramallah, il Muqata. Da un lato c’è il mausoleo e il museo di Arafat, quest’ultimo ospitato nei luoghi che lo videro confinato negli ultimi giorni di vita, sotto l’assedio dei carri israeliani. Dall’altro, gli uffici della presidenza dell’organo amministrativo palestinese, nato nel 1993 con gli accordi di Oslo e che avrebbe dovuto traghettare la Palestina alla creazione di un nuovo Stato.
Il massacro del 7 ottobre e la guerra a Gaza hanno messo in ombra l’ANP e il suo presidente Abu Mazen. I palestinesi da tempo hanno perso fiducia in lui e si spostano sempre più verso Hamas, considerata l’unica a battersi per la loro causa. Ma il governo di Ramallah, secondo il portavoce, è impegnato a tenere ferma la barra, continuando i negoziati.
«Non ci siamo mai tirati indietro, ci siamo sempre seduti a qualsiasi negoziato e sarà sempre così», dice Nabil Abu Rudeineh al CdT, sottolineando come l’unico interlocutore per la soluzione del problema palestinese sia l’Organizzazione per la liberazione della Palestina, l’organo che rappresenta tutti i palestinesi, anche quelli della diaspora.
A Ramallah sono certamente preoccupati per l’evolversi del conflitto, anche perché oltre a drenare consensi a Fatah, il partito reggente, e alla stessa ANP, la guerra ad Hamas sta minando parecchio il dialogo che, comunque, negli ultimi anni era fermo. La colpa, secondo il portavoce della presidenza palestinese, non è solo di Israele, ma soprattutto americana. L’arrivo dell’amministrazione Biden, infatti, era stato visto come un momento di rottura con Trump e le sue politiche anti-palestinesi, dimostrate - secondo Ramallah - dallo spostamento dell’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme, dalla chiusura della sede palestinese a Washington, dal taglio degli aiuti.


Questioni a cui Biden aveva promesso di porre rimedio e che invece, a oggi non sono cambiate. «Ogni volta - dice Nabil Abu Rudeineh - quando incontra il nostro presidente, anche pochi giorni fa, Biden promette di voler cambiare la situazione, ma non lo ha fatto mai e non credo lo farà». Per il portavoce, alla fine anche Trump aveva un piano per la Palestina, e seppure non condiviso lo aveva presentato. Così come tutti i suoi predecessori. Biden invece ha mostrato totale disinteresse alla cosa.
Il pericolo, per il governo di Ramallah, non è solo la stasi nella pace dell’area, ma che la stessa area possa tramutarsi in un campo di battaglia, con il conflitto attuale che potrebbe allargarsi. «Questo - spiega Rudeineh - è deleterio; un problema serio, non soltanto per noi qui, ma anche per voi in Europa». Secondo il politico palestinese, infatti, un conflitto ampio in tutto il Medio Oriente significa da un lato problemi di sicurezza in tutta Europa, dall’altro un maggiore problema di emigrazione. La destabilizzazione dell’area avrebbe così, secondo Ramallah, riverberi in tutto l’Occidente, principalmente nel Vecchio continente sia per la vicinanza, sia per la forte presenza di cittadini provenienti dai Paesi di quest’area.


La soluzione è nelle mani degli Stati Uniti, più che di Israele. «Washington - dice Rudeineh - deve fare pressione sugli israeliani, i quali ascoltano solo gli USA. La prima cosa da fare è un cessate il fuoco. Dopo, possiamo tornare a sederci a un tavolo. Noi siamo aperti a qualsiasi discorso, abbiamo dimostrato di essere aperti a concessioni. Dobbiamo tornare a parlare - sulla base delle risoluzioni ONU - di Gerusalemme Est e dei confini del 1967». In questa nuova fase negoziale, un importante ruolo giocano anche i Paesi arabi che, secondo Ramallah, non hanno voltato le spalle al popolo palestinese: l’ultima volta che si sono riuniti, pochi giorni fa, hanno lanciato un chiaro messaggio di sostegno.
Ma la guerra, per l’ANP, non si combatte soltanto a Gaza. Il portavoce lamenta che si è di fronte ad una «guerra contro i palestinesi», visto che da parte israeliana continuano, incessanti, i raid in Cisgiordania, nel territorio controllato dalla stessa Autorità Nazionale Palestinese. Almeno 200 sono i morti in questa zona dall’inizio del conflitto. Raid che comunque sono anche organizzati di concerto con la stessa ANP, in base al coordinamento di sicurezza voluto dagli accordi di Oslo. Spesso sfuggono di mano, così come fuori controllo sono gli attacchi dei coloni israeliani, contro i quali anche Benjamin Netanyahu si è lamentato. La pacificazione, pertanto, per essere credibile e per evitare l’allargamento di un conflitto a proporzioni non più contenibili, deve interessare l’intera area.