Il divano orientale

Conoscenza e cicaleccio

Il giornalismo si trova oggi confrontato con una sfida senza precedenti: il mondo sta diventando sempre più complesso e contemporaneamente il linguaggio per analizzarlo sempre più semplificato
Marco Alloni
Marco Alloni
28.09.2022 06:00

Il giornalismo si trova oggi confrontato con una sfida senza precedenti: il mondo sta diventando sempre più complesso e contemporaneamente il linguaggio per analizzarlo sempre più semplificato. Prendiamo il caso della guerra in Ucraina, dove almeno due grandi questioni ricadono sistematicamente nel pour parler o nella crassa partigianeria, quando sono viceversa il ganglio di tutta la vicenda. 1) Le origini storico-politiche della guerra. Il dibattito si è appiattito su un «colpa di Putin / colpa della NATO» proprio quando, per consentire una presa di posizione consapevole sulle molte responsabilità in campo, sarebbero necessarie ore e giorni di approfondimenti. 2) Utilità delle sanzioni e dell’invio di armi. Anche in questo caso, le analisi economico-strategiche, per non parlare di quelle politiche, richiederebbero tempi straordinariamente ampi, mentre la discussione si trova oggi confinata nel moralistico e sterile: «è giusto o sbagliato armare la resistenza ucraina?». Responsabilità di una globalizzazione che stritola suo malgrado l’informazione nelle ridotte dell’opinionismo? Responsabilità di un sistema capitalistico che non può permettersi l’approfondimento se non a scapito di una perdita verticale di lettori e quindi di profitto? Di fatto le opportunità del giornalismo di smarcarsi dal cortocircuito della brevità – ovvero dal più sarò sintetico e più avrò audience – si vanno sempre più assottigliando: con la conseguenza che nel crescere della complessità si riduce anche la nostra capacità di analizzarla. Sulle grandi questioni internazionali, in particolare su quell’Oriente che in questa rubrica spesso evochiamo, si formano così enclave di esperti che ne discutono tra loro con competenza e tempi adeguati, in forme acute ma autoreferenziali, mentre l’opinione pubblica resta in gran parte esposta a una logica del pro e contra che non trova radicamento se non in una mera conoscenza di belletto. Fine della cultura e trionfo dell’imparaticcio, allora? Non necessariamente. Se non altro perché questo «mordi-e-fuggi» del sapere comincia a deludere un numero crescente di utenti, e perché un’estensione della tenzone dialettica dal cicaleccio al dibattito a tutto tondo è sempre possibile. Basti pensare a un recente dibattito tra i filosofi Lévy (filo-atlantista) e Dugin (filo-putiniano) in Francia, che in un’ora di faccia-a-faccia hanno dischiuso orizzonti di pensiero che valgono in sé la somma di decine di talk-show senza costrutto. Sì, forse, se esercitiamo il nostro intelletto a indagare con meno pressapochismo il mondo che ci circonda, saremo anche meno inclini alla sicumera di aver ragione o di distinguere senza distinguo i buoni dai cattivi. Saremmo più bravi ad ascoltare gli altri e avremmo forse meno guerre.