Il massacro di Srebrenica e gli orrori del presente

Oggi, 11 luglio, 25.mo anniversario del genocidio di Srebrenica, si commemorano gli oltre ottomila musulmani bosniaci, uomini e adolescenti, uccisi a sangue freddo e seppelliti in fosse comuni dalle truppe serbo-bosniache guidate dal generale Ratko Mladic. A un quarto di secolo da quella spietata pulizia etnica che la comunità internazionale non ha saputo o voluto fermare (il battaglione olandese dell’ONU che doveva difendere la zona protetta di Srebrenica alla fine abbandonò la popolazione civile al proprio destino), i corpi di oltre mille vittime di quel mostruoso bagno di sangue mancano ancora all’appello. Le mogli, le figlie e le sorelle degli scomparsi non hanno più lacrime da piangere dopo decenni di dolore. E molte di loro non hanno neppure una tomba su cui chinarsi a pregare.
In un momento in cui nel mondo la xenofobia, i partiti sovranisti e i conflitti etnici tornano a emergere, che insegnamenti può trarre la comunità internazionale da quegli orrori che in Europa non si vedevano più dalla fine della Seconda guerra mondiale? Nella regione teatro della spaventosa guerra etnica degli anni Novanta del secolo scorso vien da dire che finora si è appreso ben poco, visto che vi è ancora chi cerca di negare o sminuire il massacro di migliaia di persone che si erano arrese alle milizie di Ratko Mladic. I rapporti tra alcuni Paesi dei Balcani sono sicuramente migliorati, come ad esempio quelli tra Serbia e Croazia, ma tra la popolazione, soprattutto quella che ha vissuto gli orrori di quello spaventoso conflitto, resta una diffidenza di fondo. In Bosnia ed Erzegovina, in particolare, dove musulmani, serbi e croati convivono, le narrazioni nazionalistiche sono ancora molto forti e presenti nella società.
La Comunità internazionale, dal canto suo, continua a mostrare di non riuscire a fermare i vari massacri di civili indifesi che si susseguono in varie parti del pianeta dopo la fine delle guerre dei Balcani. Si pensi ad esempio alla Siria, dove da anni è in corso una spietata guerra civile nella quale si sono fatti strada gli interessi di diverse potenze, ma dove a pagare il prezzo più alto sono soprattutto i civili. Ce ne siamo accorti soprattutto quando abbiamo cominciato a contare i numerosi profughi che continuano a bussare alle porte dell’Europa. Da quando è iniziata la pandemia da coronavirus la comunità internazionale sembra avere ancora meno tempo da dedicare a questo ed altri conflitti che nell’ultimo anno hanno causato un numero record di profughi nel mondo. Ma l’indifferenza non è certo l’arma migliore per far fronte al flusso di disperati in fuga da guerre e massacri.
Elie Wiesel, scrittore USA (morto nel 2016) di origine ebraica, sopravvissuto ad Auschwitz e premio Nobel per la Pace, commentò così i fatti di Srebrenica: «Un tentativo deliberato e sistematico di terrorizzare, espellere o uccidere un intero popolo deve essere affrontato con tutti i mezzi necessari. Dobbiamo sempre schierarci. La neutralità aiuta l’oppressore, mai la vittima. Il silenzio incoraggia l’aguzzino, mai il tormentato. A volte dobbiamo interferire. Quando le vite umane sono in pericolo, quando la dignità umana è in pericolo, i confini nazionali e le sensibilità diventano irrilevanti». Peccato che gli Stati Uniti e la NATO siano intervenuti per fermare la guerra dei Balcani solo dopo il massacro di Srebrenica e altre stragi di civili. E ancora oggi sono tanti gli orrori commessi nel mondo che andrebbero combattuti e fermati con maggiore impegno.