Commento

L’Italia in campagna elettorale dopo Draghi

I partiti si stanno organizzando in vista della campagna elettorale che porterà alle votazioni del 25 settembre
Robi Ronza
Robi Ronza
03.08.2022 06:00

Sciolto il Parlamento, Mario Draghi, rimasto in carica «per il disbrigo degli affari correnti», fino alle votazioni del 25 settembre prossimo governerà in Italia a mezzo di decreti avendo come referenti soltanto il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, e la Commissione Europea. A giudicare dal sorriso tornato sul volto di Draghi questa situazione non gli dispiace affatto. Gli «affari correnti» sono tra l’altro la spesa degli aiuti che l’Italia sta ricevendo dall’Unione Europea e le riforme che le ha promesso, la guerra in Ucraina, la gestione della lotta alla pandemia e altro. Insomma, non propriamente dei bruscolini.

Frattanto i partiti si stanno organizzando in vista della campagna elettorale. Si fronteggiano principalmente due coalizioni, diverse non solo in quanto a linea ma anche in quanto a consistenza. Quella di centrosinistra, centrata sul Partito Democratico di Enrico Letta, dopo la rottura con il Movimento 5 Stelle e quindi il fallimento della proposta del «campo largo», non può che essere un semplice patto elettorale, un insieme di forze dall’ultrasinistra di Nicola Fratoianni al centro di Carlo Calenda unite per contrapposizione al centrodestra. È una coalizione che non può presentare un programma comune e che viene finora data comunque per perdente a meno che riesca a puntare su un candidato premier in certo modo esterno. Si fa al riguardo il nome di Beppe Sala, l’attuale sindaco di Milano, che è di sinistra ma non realmente identificabile con alcuno dei partiti della coalizione. Resta da vedere se non sia troppo milanese per piacere al grosso degli elettori del Pd, concentrati al centrosud.

Data dai sondaggi per vincente, la coalizione di centrodestra è veramente tale, ed ha un programma comune. Il suo grande problema è che negli ultimi anni è variata al proprio interno con il declino di Forza Italia di Silvio Berlusconi, il ristagno della Lega di Matteo Salvini e la notevole crescita di Fratelli d’Italia, FdI, di Giorgia Meloni che oggi è il partito maggiore. FdI è però l’erede, seppur lontano e indiretto, del partito neofascista Movimento Sociale Italiano, uscito di scena nel 1995. Essendo inteso che è il partito più votato che, in caso di vittoria del centrodestra, deve indicare il premier, il Partito Democratico e la grande stampa ad esso vicina hanno montato una forte campagna contro l’eventualità che premier possa diventare Giorgia Meloni. Un argomento che pesa, soprattutto nel Nord, anche nel campo del centrodestra. Molto abilmente Meloni ha allora fatto sapere che, se FdI sarà il partito più votato, indicherà il premier ma questi potrà non essere lei o un altro del suo partito; e ha fatto circolare, ad esempio, il nome di Letizia Moratti.

Ciò detto, in che cosa si distinguerebbe oggi, in quanto a politica economica, un’Italia governata dal centrosinistra da una governata dal centrodestra? Ben poco, sostiene ad esempio Alberto Mingardi, figura di primo piano dell’Istituto Bruno Leoni, solitario faro di pensiero liberale nel mare di un Paese ancora sostanzialmente imballato nella struttura dirigista che si diede ai tempi della Guerra fredda. Ai tempi del Covid erano detti «ristori». Oggi sono diventati «aiuti». Una volta li chiamavano «sussidi», ha osservato Mingardi in un suo editoriale sul Corriere della Sera, «Alle prime battute di questa campagna elettorale siamo tutti preoccupati dell’imminente discontinuità (…). Forse sarebbe il caso di preoccuparsi anche di ciò che definisce la politica degli ultimi anni: l’adesione a un’idea della politica tutta incentrata, appunto, sul ristoro, sull’aiuto, sul sussidio. (…) I sussidi cronicizzano i problemi. Ristoro chiama ristoro, aiuto chiama aiuto. (…) La questione non è tanto la volontà di sorreggere “chi è rimasto indietro”. È che si afferma una cultura della dipendenza». Secondo Mingardi si dovrebbero piuttosto aiutare le persone che l’hanno perso a ritrovare un lavoro, non a… ristorarle nella loro disoccupazione. «La voglia di fare - continua - è qualcosa che le persone hanno indipendentemente dalle istituzioni politiche. (…) L’automatismo per cui a un problema corrisponde un decreto e a un decreto corrisponde un sussidio la mortifica». È da questa cultura e dalla politica che ne consegue, conclude il pensatore liberale, che il prossimo governo italiano, quale che sia, dovrebbe finalmente liberare l’Italia.