L'editoriale

L'emergenza rimossa della guerra in Ucraina

Se ci avessero detto, alla fine di febbraio, mentre il nostro cuore trepidava per le sorti del popolo ucraino, che sei mesi dopo avremmo voltato lo sguardo da un’altra parte, non ci avremmo creduto
Ferruccio de Bortoli
Ferruccio de Bortoli
13.08.2022 06:00

Se ci avessero detto, alla fine di febbraio, mentre il nostro cuore trepidava per le sorti del popolo ucraino, che sei mesi dopo avremmo voltato lo sguardo da un’altra parte, non ci avremmo creduto. Avremmo espresso un giudizio poco lusinghiero sulla sincerità dei nostri sentimenti democratici, sulla bontà del nostro spirito umanitario. Invece, dobbiamo constatare, che l’indignazione per l’aggressione russa si è un po’ spenta. Abbiamo rimosso la discussione sulle responsabilità. Siamo concentrati sulle conseguenze di un conflitto che, al pari di tanti, troppi, è scivolato nell’ambito della fisiologia delle crisi internazionali. Le forniture di gas sono più importanti del destino di Odessa? Consoliamoci: non siamo diventati più cinici. Quello che accade è per certi versi inevitabile. Fa parte delle leggi non scritte della comunicazione pubblica. E anche, piaccia o no, della natura umana. L’emergenza prolungata genera stanchezza e bisogno crescente di evadere dalle paure quotidiane. Accade anche per la pandemia. Averne consapevolezza ci consente, in uno sforzo di razionalità, di non far venire meno l’appoggio a chi soffre. Gli aggressori non devono avere il dividendo della nostra disattenzione. Il consiglio di sicurezza dell’ONU ha discusso, l’altra sera, del gravissimo pericolo di un incidente nucleare nella centrale di Zaporizhzhia, la più grande d’Europa. Russi e ucraini si accusano a vicenda. L’agenzia internazionale per l’energia atomica (AIEA) teme possibili conseguenze catastrofiche. Quando venne conquistata da Mosca, a marzo, la centrale nucleare ucraina fu al centro dell’informazione mondiale. Anche e soprattutto per la sua vicinanza a Chernobyl. Ora è una delle tante notizie dal fronte. Quasi la normalità di una guerra che si trascina troppo a lungo. E vorremmo finisse presto (l’inverno si avvicina). Ma i crimini di questi giorni non sono meno gravi ed esecrabili di quelli commessi nei mesi scorsi, a Bucha per esempio, anche se non muovono più di tanto l’opinione pubblica internazionale. La copertura dei media si è molto ridotta. Più da parte delle testate europee che di quelle nordamericane. La presenza degli inviati, delle troupe televisive, dei tanti coraggiosi (un grazie particolare) free lance, è un prezioso deterrente contro la disumanità del conflitto. Ferma mani assassine. Se lo sguardo dell’opinione pubblica si indebolisce, la furia sanguinaria si ingrossa. La nostra immediata e così spontanea solidarietà è come se si trasformasse in una sorta di indiretta complicità di fatto. I Paesi democratici non possono fare questo regalo a Putin e agli invasori. Nei giorni scorsi, intervistato da Limes, il segretario di Stato vaticano, Pietro Parolin, ha detto con chiarezza che l’Ucraina ha diritto a difendersi con le armi. Parole importanti, passate quasi inosservate, specie nel campo pacifista, non solo cattolico. Nello Scavo su Avvenire ha ricordato che all’inizio della guerra, il governo di Kiev aveva lanciato l’allarme su almeno 5 mila bambini, ospiti degli orfanotrofi, dei quali si sono perse le tracce. Oggi la stima arriva a 20 mila. Probabilmente deportati in Russia anche in seguito alla legge promulgata da Putin del 30 maggio che agevola le adozioni nelle zone occupate. «Ogni giorno in Ucraina in media più di 2 bambini vengono uccisi e oltre 4 feriti. Ma il vero numero delle vittime fra i bambini è probabilmente molto più alto». L’allarme dell’Ufficio ONU per i diritti umani una volta avrebbe smosso le coscienze internazionali. Oggi purtroppo no.