L'editoriale

Tutti quei privilegi che davamo per scontati

Guardando oggi alla vita di ieri, ci accorgiamo di quante certezze siano nel frattempo venute meno – Ma la colpa non è del COVID, e neppure della guerra contro l'Ucraina
Paolo Galli
30.06.2022 06:00

Guardando oggi alla vita di ieri, ci accorgiamo di quante certezze siano nel frattempo venute meno. Alcune si sono trasformate, si stanno trasformando, stanno diventando qualcos’altro. Altre, semplicemente, hanno lasciato un vuoto, risucchiate nel buco nero della loro epoca. La pace, la luce, l’energia, l’acqua, i confini, il nostro posto nel mondo. Tutto è stato rimesso in discussione. Ma la colpa non è del COVID, e neppure della guerra contro l’Ucraina. Tutto è connesso, certo. Tale connessione, d’altronde, è l’unica certezza rimasta; rimasta addirittura con maggiore forza e presenza. La pandemia e l’aggressione russa hanno semmai funto da acceleratori sui tempi, generando tutta una serie di conseguenze, di effetti collaterali. Ma con più onestà possiamo riconoscere gli errori di valutazione commessi, errori - grandi fallimenti come piccole distrazioni - che stanno alla base dei nostri nuovi timori, dei dubbi e delle difficoltà. Oggi ci diciamo: avremmo dovuto saperlo, avremmo dovuto accorgerci prima, muoverci prima. Perché non abbiamo fatto nulla? Perché oggi ci troviamo in questa situazione? Abbiamo creduto che tutto ci fosse dovuto, che l’Occidente, questo Occidente, una toppa comunque sarebbe riuscito a metterla su tutto. Reduci dal secolo delle guerre mondiali, del peggio che potesse contraddistinguerci, ci siamo comunque fatti sorprendere. È in fondo la storia degli allarmi relativi ai cambiamenti climatici. Per anni, o meglio per decenni, sono stati vissuti con fastidio. Cassandre. Oggi ci accorgiamo di quanto fossero reali. E reali, concrete, sono anche le conseguenze di quei cambiamenti. Ce ne accorgiamo di fronte alle domande sulla sicurezza dell’approvvigionamento idrico - l’acqua! - e della biodiversità, così come nel tentare di definire il mix energetico del futuro. E allora non vorremmo davvero arrivare a un punto di non ritorno. Ancora non ci siamo. Ma perché rischiare? La direzione, lo abbiamo capito, è proprio quella. La reazione passa da un approccio sempre più indigeno ai beni vitali. E ciò riguarda la produzione di energia come l’utilizzo, nei vari settori dell’economia, di materie prime sempre più sostenibili. L’approccio indigeno al mondo che verrà non può comunque non passare dall’interazione con chi ci sta vicino, e quindi da una vita comunitaria, fatta di comunicazione e di scambio. Ma, allora, che comunicazione e scambio non siano più a senso unico, della serie: io produco, tu compri. Altrimenti saremo destinati a subire ancora, e sempre di più, i flussi di un mercato a sua volta condizionato da quella geopolitica il cui equilibrio, che davamo per scontato, è venuto a mancare. Insomma, l’isolazionismo non ha senso. Non può andare al di là di uno stato mentale, non oltre. Non possiamo permettercelo. Perché possiamo sperare - tornando lì - di produrre sempre più energia in proprio, ma non possiamo pensare che la stessa possa bastarci, garantendoci continuità di consumi e, in definitiva, un futuro. Dovremo comunque rimanere connessi a una rete. Non vale solo per l’energia. Abbiamo d’altronde capito che i confini sono relativi, facilmente superabili da un contagio come da un missile. Che possono persino essere messi in discussione, dall’oggi al domani, da un possibile invasore. E a nulla servono atteggiamenti draconiani, se non a sentirsi più soli, a sentire più forte la paura. È qui che va cercata la morale di una favola che favola in realtà non è. È il ritratto della nostra epoca, in cui alla dimensione fisica della vita se n’è sovrapposta una virtuale. Forse anche questa confusione tra dimensioni ci ha fatto dimenticare quanto contassero gli elementi vitali, l’importanza dell’acqua, dell’elettricità, dell’altro. Ci ha fatto dimenticare quanto fossimo - quanto siamo - privilegiati.

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