Il personaggio

Ecco l'uomo che ha inventato la parola «tangentopoli»

A tu per tu con Piero Colaprico, una vita a raccontare la storia degli ultimi quarant'anni e oggi direttore artistico del Teatro Gerolamo di Milano
Mauro Spignesi
29.01.2023 15:00

Oggi è direttore artistico del Teatro Gerolamo di Milano, una Scala in miniatura costruita nel 1868 a due passi dal Duomo, dove sono passati artisti come Eduardo De Filippo, Giorgio Gaber e Dario Fo. D’altronde anche il teatro funziona con le parole, come i giornali dove Piero Colaprico ha passato una vita (alla redazione di Repubblica) raccontando la storia degli ultimi quarant’anni. È stato lui, per esempio, a inventare il termine «tangentopoli» quando scattò l’inchiesta di Mani Pulite, perché all’inizio i protagonisti, maldestri e sfortunati, assomigliavano a Paperino e Milano a Paperopoli. Da qui, appunto, «tangentopoli». 

Ma la grande passione di Colaprico è il racconto. Oltre i saggi (naturalmente su tangentopoli, poi sul «caso Ruby» che ha coinvolto Silvio Berlusconi, sull’immigrazione e la malavita che cambia) ha iniziato la fortunata serie del maresciallo Binda, insieme a Pietro Valpreda, e ha proseguito - sempre sul solco del genere «hard boiled» - con la trilogia dell’ispettore Bagni, sino all’ultimo libro uscito recentemente per Feltrinelli «Requiem per un killer», la storia di Marco Michele Sigieri, sovrintendente alla Squadra Omicidi di Milano ma anche sicario di don Benigno Morlacco, boss della ’ndrangheta nel Nord Italia. 

Uccidere mentre la vittima ride

«La vicenda - racconta Piero Colaprico - prende avvio con un incarico del boss al poliziotto che prima di diventare un uomo di legge era un killer a chiamata. Ma stavolta l’omicidio deve seguire un preciso rituale: la vittima, il traditore Gualtiero Dugnani, avvocato del clan caduto in disgrazia dopo una serie di operazioni finite male, deve morire ridendo. Il sicario, tuttavia, non è un esperto di comicità e dunque si interroga, si arrovella, inizia un viaggio introspettivo dove oltre a immaginare come si possa uccidere un uomo mentre ride incontra una infinità di dubbi». Ironia e sarcasmo si aggiungono dunque agli ingredienti di una storia noir. «Peraltro - aggiunge Colaprico - è l’unico racconto che ho scritto in prima persona, ma questa scelta mi ha consentito di tirare fuori l’ambiguità del personaggio, quel senso sfuggente del male che si intreccia con un rigurgito di bene. E poi questo stile di scrittura devo dire che sorprendentemente mi ha conquistato». 

L’esperienza della cronaca nera

Il giornalismo c’entra molto con i suoi racconti. E soprattutto con i suoi personaggi. «Il maresciallo Pietro Binda, ad esempio, nasce un po’ sulla scorta della mia esperienza di cronista di nera», racconta lo scrittore. «Ho provato - aggiunge - a rievocare, a far rivivere certe sensazioni, umori, modi di parlare, abbigliamenti, atmosfere, che ho provato entrando nelle caserme e negli uffici della polizia durante i tanti casi che ho seguito. Binda, che è un uomo del nord, nasce poi un po’ da un’esigenza di Valpreda che voleva inventare un protagonista buono, umano, un antieroe capace di mettersi anche dalla parte delle vittime, visto che lui - dopo aver subito l’ingiusto arresto per i fatti di Piazza Fontana - aveva visto solo il volto cattivo dello Stato». 

L’amicizia tra Valpreda e Colaprico è durata molti anni. Ed è cominciata dopo che Valpreda aveva chiuso il bar che gestiva a Milano e voleva scrivere gialli. Una terza vita, dopo quella di ballerino e barista, che si porta dietro la ferita di una lunga vicenda giudiziaria, nata dopo l’attentato alla Banca nazionale dell’agricoltura di piazza Fontana del 12 dicembre 1969 e conclusa solo nel 1987 con l’assoluzione di Valpreda. Era rimasto in carcere - accusato da un taxista - senza processo per oltre tre anni. Dopo questa esperienza era nata la «legge Valpreda»: stabilisce che non si può essere detenuti in attesa di giudizio a vita. 

Perché Milano? Perché sono arrivato giovanissimo in questa città, e qui ho vissuto tutte le sue stagioni, da quella buia degli scontri politici, a quella delle grandi bande di rapinatori, dalla città da bere a quella della crisi, sino a oggi

La vicenda dell’ex ballerino anarchico

In un ricordo dell’amico, Colaprico rievoca quando Valpreda aveva indicato una sua foto da ballerino promettente. «Poi m’han sbattu denter e l’è finida inscì», aveva detto sarcastico. Insieme hanno scritto «Quattro gocce di acqua piovana» (2001), «La nevicata dell’85» (2001) e «La primavera dei maimorti» (2002). Mentre il quarto libro, «L’estate del mundial» (2003), fu scritto dopo la sua morte (nel luglio 2002), quasi interamente da Colaprico.

«Invece l’ispettore Bagni - riprende Colaprico -  l’ho cavato via da tre profili diversi di investigatori che sono rimasti nel taccuino della memoria. Bagni è un uomo che vive di contraddizioni, ad esempio durante una perquisizione ruba una valigetta zeppa di soldi ma non li spenderà mai». Conoscendo la macchina delle indagini, come ruota, come si muove, «ho cercato - e questo me lo hanno riconosciuto molti lettori, tra loro anche magistrati - di aver ricostruito nelle pagine dei libri un ambiente credibile, evitando di raccontare la solita favola dei delinquenti furbi e sfuggenti e dei poliziotti idioti. Qualcuno può anche dirmi che ho un difetto di fantasia ma io preferisco essere aderente alla realtà». 

Tra l’altro in uno dei racconti, «La primavera dei maimorti», «c’è una indagine - spiega Piero Colaprico - che si snoda dalla Lombardia sino in Svizzera. E questo perché la storia, che parte nell’aprile del 1969, inizia dopo il ritrovamento del cadavere di un cittadino elvetico ucciso a coltellate, un ex agente segreto che lavorava sulla linea del confine durante la guerra». Per scoprire i segreti dell’uomo Binda finisce a San Vittore, infiltrato, perché nel carcere sono rinchiusi tre sospettati.

A parte questo riferimento svizzero, perché tutte le storie ruotano con insistenza attorno a Milano? «Perché sono arrivato giovanissimo in questa città, e qui ho vissuto tutte le sue stagioni, da quella buia degli scontri politici, a quella delle grandi bande di rapinatori, dalla città da bere a quella della crisi, sino a oggi quando sulla spinta dell’Expo Milano è rinata grazie a Giuliano Pisapia, il sindaco della rappacificazione, e poi a Giuseppe Sala un manager che ha capito subito che bastava liberare le energie per far ripartire turismo, arte, imprese, ma soprattutto la creatività che ha sempre caratterizzato questa metropoli che ho sempre definito vorace, rapace, capace». 

La corruzione non è diminuita

Oggi Piero Colaprico, che nel 1996 aveva scritto (per Saggiatore) il saggio «Capire tangentopoli», ha seguito con un sentimento di disillusione il dibattito scattato per l’anniversario dei trent’anni di Mani pulite, un capitolo iniziato il 17 febbraio 1992 quando venne arrestato il socialista Mario Chiesa, presidente del Pio Albergo Trivulzio e la Prima repubblica in Italia cominciò a sbriciolarsi. «Di quei sentimenti di allora - racconta - e di quel moto di rabbia e voglia di cambiare, non è rimasto quasi nulla. Eppure poteva essere l’occasione buona per trovare leggi e sistemi di prevenzione capaci di far diminuire la corruzione». Ultima annotazione: ha mai più visto Antonio Di Pietro? «No, non l’ho più incontrato. So che è tornato alla guida del suo trattore rosso in Molise. L’ultima volta l’ho incrociato a una conferenza, ma era lì già nelle vesti di politico». Sembra passato un secolo, non trent’anni.

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