Riconoscimenti

Il Centro polmone della Svizzera italiana ha una qualità europea

I malati italofoni di tumore al polmone avranno a disposizione una struttura sanitaria di riferimento e non saranno più costretti ad andare a Berna o Zurigo
© CdT/Chiara Zocchetti
Mauro Spignesi
19.03.2023 18:30

La prima notizia è che il Centro polmone della Svizzera italiana ha centrato i rigorosi criteri di qualità stabiliti a livello internazionale dalla Deutsche Krebs Gesellschaft (DKG) e ha dunque ottenuto la certificazione europea. La seconda notizia è che ora, grazie appunto al certificato DKG, i malati italofoni di tumore al polmone avranno a disposizione una struttura sanitaria di riferimento e non saranno più costretti ad andare a Berna o Zurigo (dove da tempo possiedono questo attestato). «Per i pazienti ticinesi, al di là della qualità del nostro lavoro quotidiano, significa avere la garanzia di trattamenti di elevato standard in sintonia con i modelli europei previsti dal catalogo DKG», spiega il professor Stefano Cafarotti, responsabile del Centro oncologico polmonare della Svizzera Italiana, nonché primario Chirurgia toracica dell’Ente ospedaliero cantonale, responsabile dei Centri oncologici specialistici EOC e professore alla Facoltà di scienze biomediche.

Cafarotti ha 42 anni, è un medico che trasmette entusiasmo, è concreto e diretto, appassionato di una specialità come l’oncologia polmonare molto delicata e con parecchie complicanze anche psicologiche. È qui da 11 anni, e da quando è arrivato coltiva l’idea di realizzare un centro in lingua italiana. «Per essere chiari, i criteri DKG - prosegue - non riguardano unicamente i risultati oncologici della chirurgia. Ma prevedono l’analisi di numerosi indicatori sulla qualità e la presa a carico complessiva del paziente». Quindi si parte dalla diagnostica e si passa alla fase di valutazione dell’estensione della malattia all’interno dell’organismo, poi si attraversa la fase dei trattamenti che oggi è basata su tecnologie e farmaci innovativi. «In Ticino ora abbiamo la possibilità di affrontare insieme ai pazienti una malattia sfruttando l’intera «paletta» che la scienza ci mette a disposizione come la medicina nucleare, l’imaging avanzato, la chirurgia mini-invasiva anche robotica, l’endoscopia interventistica, la radioterapia, le terapie a bersaglio molecolare, l’immunoterapia. Questo ci dice il riconoscimento della certificazione», precisa Cafarotti. 

L’approccio alla persona

Ma tra i requisiti previsti per la certificazione c’è un aspetto per certi versi più importante ancora. «Ed è quello dell’approccio alla persona (e non solo alla malattia), come la possibilità per il paziente di avere un infermiere di riferimento, specialista del tumore al polmone, che lo segue lungo tutto l’iter diagnostico-terapeutico e che diventa la sua figura di riferimento. Un punto certo - dice il primario - in un’epoca in cui il malato, durante il corso del trattamento rimbalza rapidamente da uno specialista all’altro. Avere una figura come questa è importante e rientra nelle strategie della psico-oncologia. Bisogna capire che chi è colpito da tumore polmonare vive a livello emotivo e psicologico una condizione differente rispetto agli altri malati di tumore come colon, cervello, pancreas, prostata o seno. Perché spesso associa la malattia a una responsabilità personale, la vive con un senso di colpa (anche verso i familiari) legato strettamente a un comportamento come il vizio del fumo di sigaretta, che con questa patologia ha una correlazione molto forte». 

Spesso questa reazione ha un impatto sulla presa a carico del paziente. C’è, ad esempio, racconta il medico, «chi in qualche modo si mette da parte e delega tutto alla moglie (o al marito), appunto perché si sente in colpa per se stesso e per il dolore che genera in ambito familiare. Ecco l’importanza di un supporto, non solo medico, ma anche dell’infermiere che lo segue costantemente».

Un altro aspetto sono i numeri. «Un centro europeo - fa notare Stefano Cafarotti - è un centro che si dota di un organismo di controllo della qualità che consente quella che si chiama medicina basata sui dati. Non ci sono solo quelli della letteratura medico-scientifica a orientare le migliori strategie di cura ma gli indicatori di qualità interni che sono soggetti a numerose revisioni trimestrali». In pratica si tratta di istantanee che consentono di verificare quasi in tempo reale l’andamento delle prestazioni sanitarie all’interno del centro oncologico DKG in termini di soddisfazione dei pazienti, recidive, indice di mortalità, numero di complicanze. 

«Avere queste informazioni  aggiornate - avverte ancora il responsabile del Centro oncologico polmonare della Svizzera italiana - ci consente di correggere in corso d’opera gli eventuali scostamenti e dunque di adattare e prendere le contromisure e le strategie di cura più efficaci. Questo è un punto fondamentale».  Chi ha l’attestato DKG viene controllato ogni anno dell’ente certificatore, che ritorna, registra, valuta, effettua una revisione complessiva per capire se ci siano scostamenti rispetto ai livelli raggiunti l’anno prima.

Un controllo anno dopo anno

«Quando sono arrivato in Ticino - ricorda Cafarotti - il centro oncologico polmonare non esisteva. C’erano chirurghi generali che effettuavano interventi anche sul polmone e oncologi che si occupavano di tutte le neoplasie. La rivoluzione che ci porta a questa certificazione, grazie al grande impegno dell’Eoc, è quella di sposare un concetto che si chiama competenza d’organo multidisciplinare. Un modello che in Ticino è già stato sviluppato e collaudato al Cardiocentro e al Neurocentro e che porta a confrontarti per la qualità offerta e la ricerca scientifica a strutture non solo nazionali ma internazionali. Partendo da questa idea noi abbiamo sviluppato il nostro Centro». 

I pazienti curati nella loro lingua madre

«Il nostro - riprende il medico - si chiama Centro oncologico polmonare della Svizzera italiana. Tengo molto a questa definizione perché dobbiamo esser consapevoli che esiste un Ticino di 350mila abitanti ma a livello nazionale esistono anche un milione di italofoni. E quando ci si ammala di tumore è importante venire curati da medici e infermieri che parlano la tua lingua madre. Non è solo un segno identificativo ma è, se vogliamo, un modo per facilitare il rapporto tra medico e paziente, per trovare una sintonia, anche a livello psicologico. La mia personale ambizione professionale è quella che il nostro centro possa diventare un preciso e riconosciuto punto di riferimento per i malati italofoni, una sorta di treno al contrario, perché oggi in Ticino abbiamo una struttura che offre le stesse cure, allo stesso livello qualitativo DKG, di Berna e Zurigo. Ma le offre in italiano, con il medico che spiega quanto accade e il malato che può comprendere anche i dettagli». Per molto tempo diversi ticinesi, con il loro carico di dolore, speranze e preoccupazioni, è andato in Svizzera interna a curarsi. Spesso seguito da un familiare che gli stava vicino e lo assisteva e che viveva lì per un lungo periodo». 

Un primo, importante passo 

«Oggi la medicina in ambito oncologico è diventata personalizzata, viene cucita addosso alla persona. In questo contesto è chiaro che la complessità è aumentata», spiega ancora Cafarotti. Per questo le nuove strategie di cura dicono che il paziente è parte della decisione medica, indica e condivide le scelte durante il trattamento, porta nel confronto quella che è la sua volontà, le sue aspettative di vita, le attese. «È evidente che in questo contesto se non puoi esprimerti nella tua lingua madre rischi di essere oggetto di quel paternalismo medico che è stato superato dalla storia. Vogliamo costruire qualcosa di diverso». 

Una necessaria campagna di screening

Di tumore al polmone oggi si guarisce. «Prima della Seconda guerra mondiale il tumore al polmone - ricorda lo specialista - era relegato a qualche caso clinico nelle riviste scientifiche. Poi con la guerra i soldati hanno preso a fumare: sigarette e morfina erano i due elementi che caratterizzavano la loro dotazione. Da allora e sino al 2018 c’è stata una crescita dell’incidenza di questo tipo di tumore. E, indipendentemente dall’estensione (definita in quattro stadi), la probabilità di sopravvivere era in media attorno al 15 per cento dei casi. Ecco perché nella storia il cancro al polmone è definito «big killer». In realtà biologicamente questo tumore non è più aggressivo di altri, semplicemente il polmone è un organo che non contiene una innervazione sensitiva e dunque chi è malato non avverte in prima battuta di avere un problema. Quando si accorge che c’è qualcosa che non va, che c’è un sintomo, capita che lo stadio sia molto avanti con il manifestarsi anche di metastasi e questo condiziona la prognosi».

Per questa ragione da qualche anno anche in Svizzera si sta andando fortemente nella direzione di uno screening, come succede per altri organi come colon e mammella. «Bisogna capire, tutti devono capire, che se preso in uno stadio precoce, uno stadio uno, questo tumore si può curare e si arriva a una sopravvivenza prossima al cento per cento senza trattamenti aggiuntivi ad una chirurgia mini-invasiva. Serve però prevenzione. Ora il Cantone e la Confederazione arriveranno progressivamente a comprendere che, a fronte di costi importanti dei nuovi farmaci, una campagna di screening sistematica e periodica garantirebbe straordinari benefici anche nel contesto della sostenibilità economica. Perché le cure, se si coglie la malattia per tempo, non sono più diluite in lunghi periodi di chemioterapia, immunoterapie e terapie biologiche, ma più rapide e dunque meno costose per la collettività. Quindi secondo me ci sono interessi convergenti nel sostenere uno screening  con la tac, soprattutto per chi è fumatore. Costa meno un paziente operato al primo stadio che torna alla sua attività lavorativa dopo poche settimane senza fare trattamento aggiuntivo di chemioterapici piuttosto che sostenere un paziente al quarto stadio cronico che costa molto». 

In questi anni sul totale di casi complessivi quelli curati con successo sono stati in media il 15 per cento, dato sostenuto dalla diagnosi tardiva in oltre il 50 per cento dei casi. «Poi è arrivata l’immunoterapia che ha consentito di aumentare la sopravvivenza globale sino al 25 per cento. Seppur nettamente aumentata anche la sopravvivenza negli stadi tre e quattro l’unica arma per rendere la malattia curabile in modo definitivo e stabile è la diagnosi precoce». La speranza è che in futuro non ci sia più bisogno del chirurgo.

«Prima di allora - spiega ancora Cafarotti - abbiamo però bisogno di strutture che possano offrire il meglio. Io ho avuto la fortuna di imparare diverse tecniche operatorie poco invasive dal dottor Rolf Inderbitzi, che è stato il primario prima di me. Questo ci ha dato la possibilità di selezionare i pazienti in maniera più accurata e di avere i numeri che fa Zurigo per ottenere la certificazione: la mininvasibilità ha giocato un ruolo importante».

Il centro registra ogni anno in media 260 diagnosi di tumore (200 è il numero minimo per la certificazione DKG) del polmone; di queste la metà circa vengono trattate chirurgicamente. «Siamo passati da 40 lobectomie con tagli grandi a oltre 85 con tecnica mininvasiva in soli 10 anni. Tenendo conto che ogni anno arrivano ulteriori 260 diagnosi e tanti sopravvivono grazie ai farmaci che consentono una cronicizzazione, siamo davanti ad un volume di pazienti con tumori al polmone che aumenta costantemente, si chiama «prevalenza» . Tutti questi casi oggi vengono studiati, gestiti e curati anche in Ticino».

Le diverse cause della malattia

Nell’incidenza del cancro al polmone, poi, è chiaro che il fumo gioca un ruolo importante. «Ma nel nostro territorio - avverte Cafarotti - abbiamo un nemico invisibile e spietato: il radon. È la seconda causa di tumore e se si guarda la «cartina radon» dell’Europa si vede che in Ticino si accedente una luce rossa. Viviamo in un territorio fortemente radioattivo. Tanto che noi vediamo sempre più malati non fumatori, all’incirca il 35 per cento dei casi. Un altro fattore è l’inquinamento atmosferico. E poi ci sono le concause. Se uno fuma e vive in una zona ad alta presenza di radon è più facile che sviluppi un tumore». 

«Amo il mio lavoro, credo che questa professione debba legarci al concetto più nobile della medicina, quella che cura la persona e non la malattia. Personalmente voglio essere l’interprete di una medicina che offra ai pazienti questo valore. L’entusiasmo, la professionalità e l’empatia devono essere il carburante che dobbiamo avere tutti quando indossiamo il camice e ci confrontiamo con persone che vivono un momento di grande fragilità».

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