La storia

La Lugano degli anni '70 tra terroristi e inchieste

Paolo Bernasconi, oggi avvocato, 47 anni fa era il procuratore che si occupò del caso Mazzotti, risolto grazie al contributo della Magistratura e della polizia ticinesi
© CdT/Chiara Zocchetti
Andrea Bertagni
Andrea Bertagni
05.02.2023 07:00

Il passato che ritorna. Come se non fosse mai veramente passato. Perché si riaffaccia, non soltanto per riempirsi di particolari, aneddoti, ricordi. Ma anche come linea di continuità con il presente. Un presente ancora fatto di confini e intrecci con l’Italia. Anche quando si parla di criminalità. Criminalità di frontiera, verrebbe da dire. È successo così con il sequestro di Cristina Mazzotti del giugno del 1975. E succede ancora oggi. Con altre storie. Paolo Bernasconi, che oggi è avvocato, 47 anni fa era il procuratore che si è occupato del caso Mazzotti risolto grazie al contributo della Magistratura e della polizia ticinesi. Che scovarono parte del denaro del riscatto, 56 milioni di lire, in una banca di Ponte Tresa. Ce l’aveva portato un contrabbandiere ticinese, Libero Ballinari, che arrestato assieme al banchiere, dirà agli inquirenti ticinesi dove trovare il corpo senza vita della Mazzotti, rapita e uccisa con la complicità della ‘ndrangheta calabrese. 

Un fedelissimo

«Arrivammo a identificare il Ballinari grazie a una soffiata - racconta l’ex procuratore pubblico - a quell’epoca le banche cercavano e trovavano i funzionari di sicurezza interna tra le fila della polizia. Un giorno, uno di questi ex poliziotti venne da me, dicendomi che sapeva che stavo cercando qualcosa di importante, ma che non poteva dirmi niente. Trovammo allora un accordo. Io facevo le domande, lui rispondeva solo con un sì o un no». 

Una soffiata da parte «di un fedelissimo». Bernasconi ricorda così quella storia. Che anche se non si concluse felicemente, diede una risposta, seppur parziale, a molti interrogativi. 

Il caso Saronio

Una storia, ma non l’unica. Perché il 16 maggio 1975, quindi un mese prima il sequestro Mazzotti, a Lugano la polizia ticinese arresta tre persone, «due uomini e una donna», sottolinea Bernasconi, che era a capo anche di quell’operazione. Sono Carlo Fioroni, Maria Cristina Cazzaniga e Franco Prampolini, riconducibili al Fronte Armato Rivoluzionario Operaio, un’organizzazione segreta e armata per la quale provava simpatia anche Giangiacomo Feltrinelli, l’editore fiancheggiatore del terrorismo rosso che morì fulminato prima di piazzare un ordigno su un traliccio.  I tre, quel 16 maggio del 1975, non sono a Lugano per turismo. Ma per depositare 67 milioni di lire in contanti che tengono nascosti in una bombola di metano della loro Fiat 124. 

Quei soldi sono parte del riscatto del rapimento e del sequestro di Carlo Saronio, avvenuto un mese prima, in aprile in Italia a opera del Fronte Armato. Saronio, giovane ingegnere milanese e figlio di un imprenditore, morirà durante il rapimento ucciso da una dose letale di cloroformio con il quale era stato stordito. «Quel giorno li arrestammo e successivamente furono estradati in Italia», ricorda Bernasconi. 

Pacchi di soldi

Seguire i soldi. Era questa la strategia messa in campo all’epoca dalle forze dell’ordine ticinesi e non solo. «Proprio per avere delle piste nei rapimenti, che in quegli anni erano quasi all’ordine del giorno, la Banca d’Italia aveva escogitato un piano molto artigianale ma efficace - racconta l’ex procuratore -. Il denaro che le famiglie usavano per pagare i sequestri era registrato. In questo modo anche noi riuscivamo a seguire le propaggini dei sequestri fino al Ticino». In passato però non esisteva come oggi il reato di riciclaggio. Nonostante ciò, gli inquirenti si inventarono l’espediente di perseguire il reato di ricettazione, «che si realizza soltanto sugli oggetti e per questo abbiamo avuto l’idea di collegarlo ai pacchi di soldi, che in quanto pacchi erano appunto degli oggetti», spiega Bernasconi.

Imbottiture e cinture

Lugano tornerà al centro di un sequestro di banconote anche qualche anno dopo. Nel novembre del 1977 a Vienna viene rapito Walter Palmers, un manager di un’importante azienda. A portarlo a termine è il Movimento 2 giugno. Obiettivo: finanziare la lotta armata anche della Rote Armee Fraktion (RAF), uno dei gruppi terroristici di estrema sinistra più violenti di quegli anni. Rapimento e sequestro si risolvono in pochi giorni. Palmers viene rilasciato e ai terroristi vanno circa 30,5 milioni di scellini, che corrispondono a circa 6 milioni di euro di oggi. Parte di quei soldi la polizia ticinese li scova a Lugano. Proprio nel 1977. «Arrestammo tre persone che avevano banconote riconducibili al sequestro Palmers - ricorda Bernasconi - e la cosa che mi colpì è che trovammo i soldi nascosti nelle loro imbottiture delle cinture». 

Un’altra volta il passato che ritorna. Come se non fosse mai veramente passato. O avesse lasciato una cicatrice difficile da dimenticare. 

«Tutto nacque quando la Kopp...»

Quegli anni, gli anni ‘70, Paolo Bernasconi, oggi avvocato, se li ricorda bene. Non soltanto per la violenza - i sequestri in Italia e le rapine in Ticino erano molto più frequenti di oggi - ma anche e soprattutto perché i soldi delle attività illecite venivano intercettati prima di essere depositati, prima di essere riciclati, ma il reato di riciclaggio in senso stretto in Svizzera ancora non c’era. Certo, a volte si ricorreva alla ricettazione ma... ma non era semplice a livello giuridico. «Era uno stratagemma», conferma Bernasconi che negli anni ‘70, quando arrestava i terroristi  era procuratore pubblico.

Poi però finalmente qualcosa si muove e vede in prima fila lo stesso Bernasconi. «L’occasione mi si presenta un giorno che ero stato invitato a intervenire alla conferenza annuale dell’associazione di diritto penale a Basilea - ricorda l’avvocato -. In prima fila avevo visto  l’allora ministro della giustizia, Elizabeth Kopp e quindi decisi di cambiare la presentazione che avevo in testa e di presentare questa grave lacuna nella legge svizzera». 

Il progetto nel cassetto

Kopp non rimane insensibile al tema. Anzi. «Alla fine della conferenza la ministra viene al mio tavolo  e mi chiede se potevo presentarle una perizia e un progetto di legge. Non me lo sono fatto ripetere due volte e feci tutto nel 1986». 

Tutto bene, dunque? Non proprio. «La perizia e il progetto rimasero nei suoi cassetti per due o tre anni fin che poi scoppiò il caso che riguardava proprio suo marito». Così accadde che «il Consiglio federale  fu costretto a rispolverare il mio progetto che poi venne approvato all’unanimità dal parlamento svizzero per entrare in vigore il 1° agosto 1990».

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