La mostra

Richard Avedon, il fotografo fuori dal tempo

Siamo stati a Palazzo Reale a Milano per ammirare la mostra dedicata al maestro dei maestri
© KEYSTONE
Stefano Salis
29.01.2023 07:00

Si fa presto a dire «foto(grafo) di moda». Un conto sono le immagini da passarella, o anche da campagna commerciale, ma scattate con un ruolo preponderante lasciato al momento e all’abito, che è mutevole per definizione, e un conto sono quelle immagini nelle quali il fotografo scava dentro di sé, dentro il protagonista dello scatto, dentro il sistema della moda e allarga il concetto all’intero sistema culturale.

Richard Avedon (1923-2004), in questo, è stato praticamente unico. «Maestro dei maestri», infatti, come non esista a definirlo Oliviero Toscani (in un aureo libello che si intitola non a caso Caro Avedon) e artista capace di rinnovare e rinnovarsi, mantenendo però intatta una intensità di «visione» che spesso brucia ben oltre il tempo e imprigiona (o libera, a seconda dei punti di vista) i soggetti dei suoi scatti, costringendoli in momenti d’eternità che qualche volta sono insopportabilmente belli e veri. Non facile, non comune, non per tutti.

Non facile, perché Avedon aveva il rarissimo dono di eliminare alla radice gli equivoci sulle immagini, producendone - in serie - di impeccabile e immarcescibile qualità ma, non di meno, di ostinata costrizione dello sguardo, come se niente fosse ammesso oltre: e sì che molte, erano, appunto, solo «immagini per la moda». 

Un creatore di codici estetici

La sontuosa mostra che al fotografo americano ha dedicato Palazzo Reale a Milano (purtroppo finisce oggi, 29 gennaio), dal titolo «Richard Avedon: Relationships» ha ripercorso sì gli oltre sessant’anni di carriera del fotografo attraverso 106 immagini provenienti dalla collezione del Center for Creative Photography di Tucson e dalla Richard Avedon Foundation, ma soprattutto ha celebrato la statura e l’importanza, ben radicata nell’immaginario collettivo, come un autentico creatore di un codice etico ed estetico che lascia ancora oggi ampie tracce.

Gianni Versace, ammiratore, collaboratore, committente e, poi, amico di Avedon, in un filmato in mostra ricorda l’effetto che gli fece uno scatto visto in una rivista; era «Dovima e gli elefanti». Un esercizio di rarefazione ed eleganza, nel quale la modella, colta in un armonico passo di danza incredibilmente seguito dai pachidermi che le stanno dietro, allude a un modello di seduzione, e perfezione, che da solo, e lo ribadisce Versace, evoca la parola «moda». La «moda» è quell’immagine lì: qualunque significato le vogliamo dare.

Ma, se fosse «solo» moda, appunto, non staremo qui a parlare di un maestro della fotografia del Novecento. Se siamo abituati ad onorare con tale epiteto i grandi fotogiornalisti (per dire: Capa, Koudelka e così via), non dobbiamo avere remore nell’estenderlo a geni dell’obiettivo come Avedon. 

La forza di un viso

Nell’ambito dell’esposizione, per esempio, ecco un clamoroso doppio ritratto di Truman Capote. Nel primo, piccolo, nitido, ambizioso, lo scrittore, trentenne, è un avvenente efebo di sicuro fascino e successo: una statua greca, che sprigiona eros, voluttà e mistero. Nel secondo ritratto, appena venti anni dopo, Capote, ormai cinquantenne, siamo nel 1974, ha annullato (da sé e dal mondo) quella flessuosa sensualità della foto precedente. Avedon si focalizza ora sulla testa dello scrittore, che riempie gran parte dell’inquadratura ed è fuori centro. Capote indossa camicia e giacca scure e un papillon, gli occhi sono gonfi, radi i capelli, la fronte  cosparsa di piccole macchie. Capote e Avedon, e noi con loro, si chiedono sgomenti cosa sia successo: la mente che produsse alcuni dei più celebri romanzi americani del Novecento è certo ancora lì, ma ciò che noi vediamo è un volto segnato dall’età, dalla vita, dal destino. La fluidità e la grazia dell’uomo più giovane hanno lasciato il posto a una mascella serrata e a uno sguardo scontroso. Il tempo; il tempo, è il nostro peggiore nemico.

Il lungo collo di Marella Agnelli

E fuori dal tempo, perciò, si colloca - e Avedon colloca - Marella Agnelli. Donna bellissima, la più bella mai fotografata da lui, ebbe una volta a dire Avedon. Il collo, lungo, oltre ogni pensabile, è davvero quello di un cigno (così si chiamavano le bellezze che accorrevano ai balli scatenati che al Plaza dava Capote per il bel mondo newyorchese), la faccia di tre quarti enigmatica, vagamente orientale. Marella è circonfusa da un’aura misteriosa, come se non fosse possibile comprenderne mai, per nessuno, lo stato d’animo. Avedon esegue un ritocco stavolta: elimina, con il grigio, la parte del seno in modo che la figura svanisca nel grigio, stelo di un fiore impossibile, come se entrasse in una dimensione onirica. No, meglio: classica. Una dea, senza tempo, senza domande, senza dubbi.

Nessuna delle modelle famose (da Dovima a China Machado, da Suzy Parker a Twiggy e Veruschka) raggiunge quell’effetto. Forse la sola Nastassjia Kinski, ripresa nuda ma pudicissima (è l’immagine copertina della mostra), con un serpente che le attraversa il corpo, lei distesa, riesce a rievocare quella classicità icastica che è tipica, ma spesso invisibile a prima vista, del tocco di Avedon.

Da Vogue al New Yorker

Avedon legò il suo nome a riviste che iconiche lo erano per mestiere, come Harper’s Bazaar, Vogue e The New Yorker. Ma la sua cifra era quella di attraversare i generi: celebre ritrattista, ebbe due grandi modelli, che perfezionò in anni di osservazione: il personaggio collocato in un contesto (Bob Dylan giovane e scanzonato nella periferia dalla quale proveniva a sconvolgere la musica americana) e il bianco di fondo: a eliminare qualsiasi confusione dello sguardo.

Maestro nel catturare espressioni del volto, gesti del corpo, momenti, cambiamenti, stili e tensioni che, poi,  hanno attraversato la nostra società, Avedon trionfa nel bianco e nero talora spiazzante e sempre caldo: il colore non rende bene quella scultoreità che persegue, forse anche suo malgrado. Il percorso espositivo propone una nutrita selezione di ritratti di celebrità in bianco e nero: e sono tutti sagome d’eterno, nella loro vita vissuta: memorabili i quattro Beatles (alcuni suoi scatti, però ritoccati con effetti psichedelici a tutto colore, divennero celebri poster), Allen Ginsberg nudo con il compagno, Sophia Loren, Marylin Monroe, e due intensi di Andy Wahrol, dove il padre della Pop art americana decide di mostrare la sua intimità a Richard Avedon esibendo le sue cicatrici dopo la ferita da arma da fuoco. E la drammatica presenza scenica di un John Ford (l’uomo che vedeva le grandi pianure del west americano, ora cieco di un occhio con tanto di benda; un relitto della gloria) e di un ingrugnito Isaiah Berlin, la più lucida mente del secolo breve, sono lo spietato contraltare della bellezza transeunte delle modelle. Corpo e mente, sogno e realtà, in un confronto continuo che non esclude colpi bassi, sfide e successi. Molto, molto di più, della moda. O nient’altro che la moda, alla sua massima potenza. 

Accompagna la rassegna un catalogo Skira (con testi di James Martin, Donatella Versace, della curatrice Rebecca Senf, Maria Luisa Frisa) destinato a restare, ben dopo l’esposizione.

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