L'intervista

«I grandi del rock, a pochi passi da me»

Davide Bowie, Peter Gabriel, gli AC/DC e gli altri – Fino al 17 luglio, a Morcote, Massimo Rana esporrà alcuni dei suoi scatti più significativi: «Ho avuto il privilegio di esserci»
Marcello Pelizzari
11.07.2022 13:00

Fate un nome. Uno qualsiasi legato alla grande musica. C’è una buona probabilità che Massimo Rana, fotografo milanese attivo fra gli anni Ottanta e Novanta, lo abbia immortalato su pellicola. Perché sì, allora nel capoluogo lombardo c’erano tanti, tantissimi concerti e – per dirla con il nostro protagonista – «a volte c’era l’imbarazzo della scelta». Ci siamo intrattenuti con Massimo perché, fino al 17 luglio, presso la Sala Maspoli a Morcote, esporrà alcuni dei suoi scatti migliori nell’ambito della mostra FRONTSTAGE. Ritratti sul palco. Una mostra nata dall’omonimo libro.

Massimo, partiamo proprio da qui: come mai, all’improvviso, le è venuta voglia di rimettere mano all’archivio e di tirarci fuori non solo un libro ma anche una mostra?
«Premessa: per anni ho fatto il fotografo, nello specifico di concerti. Ho vissuto la Milano degli anni Ottanta e Novanta, quando sull’arco di una singola serata c’erano tantissime possibilità. Ho smesso all’inizio del nuovo millennio. Poi, diciamo, c’è stata una sorta di presa di coscienza. Avevo sempre anelato di poter rimettere mano al mio archivio, che stava languendo nell’oblio. Ma non volevo fare questo passo, forse perché non volevo illudermi che la fotografia potesse ridiventare la mia occupazione principale».

Il passo, però, l’ha fatto. Chi l’ha convinta?
«Nel 2016 ci lasciò uno dei più grandi interpreti della musica internazionale, David Bowie. Non appena circolò la notizia, amici, conoscenti e giornalisti cominciarono a stalkerizzarmi dicendomi che avevano bisogno immagini di Bowie. Eccolo, lo stimolo di cui avevo bisogno. Rimisi finalmente mano all’archivio, in particolare quello in bianco e nero. Scoprii delle immagini che avevo dimenticato, altre ancora che avevo solo intravisto. Scoprii degli inediti, anche. Immagini, insomma, che rischiavano di non vedere mai la luce. La presa di coscienza a quel punto fu totale. Iniziai a catalogare parte del materiale. Va detto, altra premessa, che io sono un fotografo vecchio stampo. Sono nato in camera oscura, perciò il bianco e nero ha sempre fatto parte della mia vita».

Una volta catalogato il materiale, quali sono stati i passi successivi?
«Ho aperto un sito internet, mettendo a disposizione gli scatti. Durante la prima ondata di coronavirus, invece, ho partorito l’idea di fare un libro che mettesse al primo posto il mio punto di vista e che desse la possibilità agli altri di vedere fotografie praticamente inedite dei loro beniamini».

Sul nostro pass, appunto, era in bella mostra la frase three songs, no flash. Era un imperativo. Anche perché dopo il terzo pezzo venivamo proprio allontanati fisicamente  

Fare foto, a un niente dal palco, non era affatto evidente. Se le diciamo «three songs, no flash» che cosa risponde?
«Era la regola da rispettare. Ed è un retroscena del nostro lavoro che racconto volentieri. Moltissimi ci vedevano nel sottopalco e ci dicevano: come siete fortunati, potete quasi abbracciare i nostri idoli. Ci vedevano, per farla breve, come dei privilegiati. Ma noi, in realtà, eravamo lì per lavorare e avevamo pochissimo tempo. Sul nostro pass, appunto, era in bella mostra la frase three songs, no flash. Era un imperativo. Anche perché dopo il terzo pezzo venivamo proprio allontanati fisicamente. Ecco, in quel breve lasso di tempo che ci veniva concesso veniva fuori tutta la nostra abilità: dovevamo ottenere immagini tecnicamente ineccepibili, quindi non mosse e ben esposte, lottando di continuo con la luce. Perché a seconda dei momenti ce n’era troppa o poca. Bisognava portare a casa la foto. E bisognava farlo con le tecniche di allora e, come detto, con questa spada di Damocle delle tre canzoni. È stato un lavoro molto probante, devo ammettere».

Che cos’è cambiato, oggi, nei live?
«La regola, paradossalmente, è rimasta. Lo so perché qualcosa faccio ancora con i gruppi che conosco. Dico paradossalmente perché noi fotografi veniamo allontanati dal sottopalco quando dietro, nelle prime file, è tutto un mare di braccia tese con telefonino in mano. Sì, il pubblico può fare foto e filmare. A essere cambiato, poi, è il mezzo. Le macchine digitali hanno meno paura del buio, sono avanzate e non presentano le problematiche di un tempo».

Come si misurava il talento di un fotografo negli anni Ottanta e Novanta?
«Io ho imparato con l’abitudine, mettiamola così. Quindi sbagliando, anche. Sbagliando e carpendo i segreti dai fotografi più esperti di me. Piano piano, però, uno riusciva a capire qual era l’angolazione giusta, come doveva muoversi, come andavano lette le luci, le ombre sul viso e via discorrendo. E capiva quale obiettivo usare. Il tutto seguendo i movimenti dell’artista, cercando di assecondarlo per poi tendergli la trappola e scattare la foto significativa. Quella, per intenderci, che valeva la pena pubblicare».

Capitava, questo sì, di finire nei cosiddetti aftershow. Dove, però, era vietato scattare fotografie. Di aneddoti, legati a questi dopo concerto, ne avrei a decine. Come quella volta che giocai a biliardino con Peter Gabriel

Lei è stato anche fotografo di sport. Questa attività l’ha aiutata per i concerti?
«Diciamo che lo sport mi ha permesso di sviluppare un’attitudine, quella di saper cogliere il momento. Una partita di calcio o un concerto, in fondo, sono eventi irripetibili. Sono sempre uguali per certi versi, ma gli eventi che ti passano davanti agli occhi cambiano di continuo. Sta al fotografo, allora, anticipare l’inquadratura giusta. Concretizzare l’idea di foto nella testa».

Il rock, in quegli anni, godeva ancora di un’aura di sacralità. Lei si limitava a scattare foto o, in qualche modo, riuscì a stringere rapporti con qualche artista?
«Quello era un mondo un po’ a sé. C’erano e ci sono i fotografi delle agenzie o dei giornali, come me, e c’erano e ci sono quelli dei management o delle case discografiche: dei dipendenti diretti dell’artista, quindi, con maggiori possibilità di accesso e rapporto. Noi, in realtà, eravamo degli operai dello scatto. Ricevevamo l’ordine di andare a un concerto e stop. Capitava, questo sì, di finire nei cosiddetti aftershow. Dove, però, era vietato scattare fotografie. Di aneddoti, legati a questi dopo concerto, ne avrei a decine. Come quella volta che giocai a biliardino con Peter Gabriel. Ma proprio perché non c’era modo di documentare questi incontri, beh, in fondo è inutile che ne parli. Detto questo, con alcuni artisti – che non fanno parte né del libro né della mostra – ho stretto legami più forti. Sono stato fotografo ufficiale degli Elio e le Storie Tese, dei Timoria e di molte band dell’underground italiano. Un periodo ricco di soddisfazioni. Quest’anno, ad esempio, ricorre il trentennale dell’uscita di Italyan, rum casusu çikti degli Elio e le Storie Tese. La foto di copertina e gli interni sono tutta roba mia (ndr: il titolo dell’album richiama quello di un giornale turco in merito all’arresto di Rana, scambiato per una spia nel 1991 dalla polizia turco-cipriota)».

Provi ad attirare un visitatore alla sua mostra: che cosa dovrebbe aspettarsi?
«Si tratta di una selezione degli scatti presenti nel libro. Una selezione di ritratti. Quelli classici, beh, sono legati al fatto di trovarsi in uno studio, di posizionare con calma luci e fondali, di avere un rapporto diretto con il soggetto. Quelli esposti, invece, sono ritratti live. E sono completamente diversi. C’entrano, semmai, con tutto quello che ci siamo detti, ovvero con il fatto di trovarsi di fronte un evento unico e irripetibile e con la necessità di portare a casa la foto».

Con il mio obiettivo, semplicemente, ho cercato di indagare lo sguardo, le mosse, ciò che accadeva. Ho avuto il privilegio di essere lì

Sotto al palco avvertiva, quindi, anche un senso di responsabilità volendo usare un’espressione alta?
«Io stavo tra il palco e il pubblico, che spingeva alle mie spalle. E sentivo molto questo dare per avere, questo transfer energetico tra lo spettatore che si aspettava una performance e il performer che dava tutto. Poi, d’accordo, c’è chi dava tutto perché quello era il suo lavoro e chi lo faceva con grande trasporto a prescindere. Con il mio obiettivo, semplicemente, ho cercato di indagare lo sguardo, le mosse, ciò che accadeva. Ho avuto il privilegio di essere lì».

Qual è, per concludere, l’aspetto che più le sta a cuore del libro?
«La sua genesi, che è curiosa. Avevo proposto il progetto a diverse case editrici, che tuttavia non mi volevano dare più di tanto corda. Pretendevano di tagliare sul numero delle foto. Allora decisi di provare la via del crowdfunding. In pratica, si trattava di vendere già delle copie prima ancora di pubblicare il volume. Raggiunsi l’obiettivo durante il lockdown e la cosa, va da sé, mi diede una carica incredibile. La mostra, in fondo, è figlia naturale di questo libro, edito da Crowdbooks edizioni che ringrazio. Come ringrazio il comune di Morcote, un comune molto rock vedendo i tanti eventi interessanti in calendario».

Massimo Rana.
Massimo Rana.