«I grandi del rock, a pochi passi da me»
Fate un nome. Uno qualsiasi legato alla grande musica. C’è una buona probabilità che Massimo Rana, fotografo milanese attivo fra gli anni Ottanta e Novanta, lo abbia immortalato su pellicola. Perché sì, allora nel capoluogo lombardo c’erano tanti, tantissimi concerti e – per dirla con il nostro protagonista – «a volte c’era l’imbarazzo della scelta». Ci siamo intrattenuti con Massimo perché, fino al 17 luglio, presso la Sala Maspoli a Morcote, esporrà alcuni dei suoi scatti migliori nell’ambito della mostra FRONTSTAGE. Ritratti sul palco. Una mostra nata dall’omonimo libro.
Massimo, partiamo proprio da qui: come mai, all’improvviso,
le è venuta voglia di rimettere mano all’archivio e di tirarci fuori non solo
un libro ma anche una mostra?
«Premessa: per anni ho fatto il fotografo, nello specifico di concerti. Ho
vissuto la Milano degli anni Ottanta e Novanta, quando sull’arco di una singola
serata c’erano tantissime possibilità. Ho smesso all’inizio del nuovo
millennio. Poi, diciamo, c’è stata una sorta di presa di coscienza. Avevo
sempre anelato di poter rimettere mano al mio archivio, che stava languendo nell’oblio.
Ma non volevo fare questo passo, forse perché non volevo illudermi che la fotografia
potesse ridiventare la mia occupazione principale».
Il passo, però, l’ha fatto. Chi l’ha convinta?
«Nel 2016 ci lasciò uno dei più grandi interpreti
della musica internazionale, David Bowie. Non appena circolò la notizia, amici,
conoscenti e giornalisti cominciarono a stalkerizzarmi dicendomi che avevano
bisogno immagini di Bowie. Eccolo, lo stimolo di cui avevo bisogno. Rimisi
finalmente mano all’archivio, in particolare quello in bianco e nero. Scoprii
delle immagini che avevo dimenticato, altre ancora che avevo solo intravisto.
Scoprii degli inediti, anche. Immagini, insomma, che rischiavano di non vedere
mai la luce. La presa di coscienza a quel punto fu totale. Iniziai a catalogare
parte del materiale. Va detto, altra premessa, che io sono un fotografo vecchio
stampo. Sono nato in camera oscura, perciò il bianco e nero ha sempre fatto
parte della mia vita».
Una volta catalogato il materiale, quali sono
stati i passi successivi?
«Ho aperto un sito internet, mettendo a disposizione gli scatti. Durante la
prima ondata di coronavirus, invece, ho partorito l’idea di fare un libro che
mettesse al primo posto il mio punto di vista e che desse la possibilità agli
altri di vedere fotografie praticamente inedite dei loro beniamini».
Fare foto, a un niente dal palco, non era
affatto evidente. Se le diciamo «three songs, no flash» che cosa risponde?
«Era la regola da rispettare. Ed è un retroscena del nostro lavoro che racconto
volentieri. Moltissimi ci vedevano nel sottopalco e ci dicevano: come siete
fortunati, potete quasi abbracciare i nostri idoli. Ci vedevano, per farla
breve, come dei privilegiati. Ma noi, in realtà, eravamo lì per lavorare e
avevamo pochissimo tempo. Sul nostro pass, appunto, era in bella mostra la
frase three songs, no flash. Era un imperativo. Anche perché dopo il
terzo pezzo venivamo proprio allontanati fisicamente. Ecco, in quel breve lasso
di tempo che ci veniva concesso veniva fuori tutta la nostra abilità: dovevamo
ottenere immagini tecnicamente ineccepibili, quindi non mosse e ben esposte,
lottando di continuo con la luce. Perché a seconda dei momenti ce n’era troppa
o poca. Bisognava portare a casa la foto. E bisognava farlo con le tecniche di
allora e, come detto, con questa spada di Damocle delle tre canzoni. È stato un
lavoro molto probante, devo ammettere».
Che cos’è cambiato, oggi, nei live?
«La regola, paradossalmente, è rimasta. Lo so perché qualcosa faccio ancora con
i gruppi che conosco. Dico paradossalmente perché noi fotografi veniamo
allontanati dal sottopalco quando dietro, nelle prime file, è tutto un mare di
braccia tese con telefonino in mano. Sì, il pubblico può fare foto e filmare. A
essere cambiato, poi, è il mezzo. Le macchine digitali hanno meno paura del
buio, sono avanzate e non presentano le problematiche di un tempo».
Come si misurava il talento di un fotografo
negli anni Ottanta e Novanta?
«Io ho imparato con l’abitudine, mettiamola così. Quindi sbagliando, anche.
Sbagliando e carpendo i segreti dai fotografi più esperti di me. Piano piano,
però, uno riusciva a capire qual era l’angolazione giusta, come doveva muoversi,
come andavano lette le luci, le ombre sul viso e via discorrendo. E capiva
quale obiettivo usare. Il tutto seguendo i movimenti dell’artista, cercando di
assecondarlo per poi tendergli la trappola e scattare la foto significativa.
Quella, per intenderci, che valeva la pena pubblicare».
Lei è stato anche fotografo di sport. Questa
attività l’ha aiutata per i concerti?
«Diciamo che lo sport mi ha permesso di sviluppare un’attitudine, quella di
saper cogliere il momento. Una partita di calcio o un concerto, in fondo, sono
eventi irripetibili. Sono sempre uguali per certi versi, ma gli eventi che ti
passano davanti agli occhi cambiano di continuo. Sta al fotografo, allora,
anticipare l’inquadratura giusta. Concretizzare l’idea di foto nella testa».
Il rock, in quegli anni, godeva ancora di un’aura
di sacralità. Lei si limitava a scattare foto o, in qualche modo, riuscì a stringere
rapporti con qualche artista?
«Quello era un mondo un po’ a sé. C’erano e ci sono i fotografi delle agenzie o
dei giornali, come me, e c’erano e ci sono quelli dei management o delle case
discografiche: dei dipendenti diretti dell’artista, quindi, con maggiori
possibilità di accesso e rapporto. Noi, in realtà, eravamo degli operai dello
scatto. Ricevevamo l’ordine di andare a un concerto e stop. Capitava, questo
sì, di finire nei cosiddetti aftershow. Dove, però, era vietato scattare
fotografie. Di aneddoti, legati a questi dopo concerto, ne avrei a decine. Come
quella volta che giocai a biliardino con Peter Gabriel. Ma proprio perché non c’era
modo di documentare questi incontri, beh, in fondo è inutile che ne parli.
Detto questo, con alcuni artisti – che non fanno parte né del libro né della
mostra – ho stretto legami più forti. Sono stato fotografo ufficiale degli Elio
e le Storie Tese, dei Timoria e di molte band dell’underground italiano. Un
periodo ricco di soddisfazioni. Quest’anno, ad esempio, ricorre il trentennale
dell’uscita di Italyan, rum casusu çikti degli Elio e le Storie Tese. La
foto di copertina e gli interni sono tutta roba mia (ndr: il titolo dell’album richiama
quello di un giornale turco in merito all’arresto di Rana, scambiato per una
spia nel 1991 dalla polizia turco-cipriota)».
Provi ad attirare un visitatore alla sua
mostra: che cosa dovrebbe aspettarsi?
«Si tratta di una selezione degli scatti presenti nel libro. Una selezione di
ritratti. Quelli classici, beh, sono legati al fatto di trovarsi in uno studio,
di posizionare con calma luci e fondali, di avere un rapporto diretto con il
soggetto. Quelli esposti, invece, sono ritratti live. E sono completamente
diversi. C’entrano, semmai, con tutto quello che ci siamo detti, ovvero con il
fatto di trovarsi di fronte un evento unico e irripetibile e con la necessità
di portare a casa la foto».
Sotto al palco avvertiva, quindi, anche un
senso di responsabilità volendo usare un’espressione alta?
«Io stavo tra il palco e il pubblico, che spingeva alle mie spalle. E sentivo
molto questo dare per avere, questo transfer energetico tra lo spettatore che
si aspettava una performance e il performer che dava tutto. Poi, d’accordo, c’è
chi dava tutto perché quello era il suo lavoro e chi lo faceva con grande
trasporto a prescindere. Con il mio obiettivo, semplicemente, ho cercato di
indagare lo sguardo, le mosse, ciò che accadeva. Ho avuto il privilegio di
essere lì».
Qual è, per concludere, l’aspetto che più le
sta a cuore del libro?
«La sua genesi, che è curiosa. Avevo proposto il progetto a diverse case
editrici, che tuttavia non mi volevano dare più di tanto corda. Pretendevano di
tagliare sul numero delle foto. Allora decisi di provare la via del crowdfunding.
In pratica, si trattava di vendere già delle copie prima ancora di pubblicare
il volume. Raggiunsi l’obiettivo durante il lockdown e la cosa, va da sé, mi
diede una carica incredibile. La mostra, in fondo, è figlia naturale di questo
libro, edito da Crowdbooks edizioni che ringrazio. Come ringrazio il comune di
Morcote, un comune molto rock vedendo i tanti eventi interessanti in calendario».