Semret

Due donne, due generazioni tra l’inferno eritreo e la Svizzera

Il lungometraggio d’esordio della regista ticinese Caterina Mona punta i riflettori su una comunità numerosa ma che nel nostro Paese vive per lo più nell’ombra
Hermela Tekleab interpreta il personaggio di Joe, la figlia adolescente di Semret. © Cineworx
Antonio Mariotti
17.09.2022 09:09

Il tema dell’integrazione degli immigrati, non certo da ieri, nel nostro Paese è di quelli scottanti, in grado di scatenare dibattiti accesissimi a livello politico in occasione di votazioni popolari su iniziative e referendum. È quindi del tutto normale che il cinema svizzero se ne sia occupato, a più riprese e con esiti alterni, soprattutto in ambito documentaristico. Semret, primo lungometraggio della regista ticinese residente a Zurigo Caterina Mona presentato in prima mondiale in Piazza Grande all’ultimo Festival di Locarno, sceglie invece la via della fiction per raccontare la storia di una donna eritrea (la Semret del titolo), giunta in Svizzera insieme alla figlia adolescente Joe dopo essere fuggita da una realtà dominata dalla violenza e dal sopruso. Una scelta non certo facile, che implica il fatto di mettere parecchia carne al fuoco dal punto di vista narrativo, che Caterina Mona riesce però ad assumere con esiti soddisfacenti grazie soprattutto a una costante e convinta «modestia» a livello di regia. Intendiamoci, il film è girato in maniera molto professionale e seguendo dei criteri stilistici molto chiari (uso delle inquadrature fisse) ma privilegia un registro dai toni minori, senza acuti fastidiosi ma nemmeno bassi dissonanti. La regista-sceneggiatrice evita così di affrontare esplicitamente gli aspetti politici della vicenda, sposando alla perfezione la personalità della sua protagonista che fa parte di quelle migliaia di «fantasmi» che popolano la nostra società contemporanea. Uomini e donne giunti da noi non per volontà propria, che sanno di non essere ben volute da una parte degli autoctoni e fanno quindi di tutto per farsi dimenticare, coscienti del fatto che farsi notare potrebbe costare loro il ritorno in quell’inferno che si sono lasciati alle spalle.

Un trauma irrisolto

Semret è letteralmente terrorizzata da questo genere di situazioni a rischio. Lo si nota quando una sbadataggine sul lavoro (fa l’infermiera in ospedale) minaccia di farle perdere il posto, quando la figlia si ribella ai suoi divieti e fugge di casa o quando un suo compatriota cerca di farle la corte. Dietro questo comportamento difensivo a oltranza c’è un trauma irrisolto, legato al concepimento di Joe, probabilmente frutto di uno stupro collettivo da parte di un gruppo di militari. Uno dei maggiori pregi del film è proprio quello di mettere sul tavolo questi problemi senza per forza doversi fornire delle soluzioni. In questo senso assume un’importanza cruciale il rapporto tra madre e figlia, all’interno del quale si cristallizzano tutta una serie di tensioni che mettono in evidenza il divario di mentalità tra generazioni cresciute in contesti completamente diversi. Ciò non toglie che le due donne siano unite da una solidarietà viscerale che riaffiora in tutta la sua forza in un finale troppo fulmineo e spiazzante per essere gustato in pieno. Un «peccato di gioventù» che lascia un po’ di amaro in bocca allo spettatore.

Universi paralleli

Prodotto da Michela Pini per Cinédokké insieme alla RSI, Semret può contare su un cast eccellente e sempre all’altezza della situazione, sia per ciò che riguarda le due coprotagoniste (Lula Mebrahtu. di cui pubblichiamo qui sotto l’intervista raccolta al Festival di Locarno, e Hermela Tekleab), sia per tutti i ruoli secondari. Una base solida che permette alla cineasta di mettere in evidenza gli universi paralleli in cui agiscono le due donne. Semret, come detto, in una zona di penombra che la fa passare quasi sempre inosservata. Joe ha invece la spavalderia e la sfrontatezza di chi si sente perfettamente a proprio agio (anche linguisticamente) nella società in cui vive, ben sapendo però di dover sempre fare i conti con le proprie radici. Un debutto, quindi, che si può dire riuscito - avendo superato con successo anche la «prova del fuoco» di Piazza Grande - e che si spera non possa che costituire il preludio di una lunga e luminosa carriera registica.

Semret, Regia di Caterina Mona. Con Lula Mebrahtu, Hermela Tekleab, Tedros Teddy Teclebrhan, Fanuel Mengstab, Manuela Biedermann (Svizzera 2022, 85’).

«Una storia bellissima, non un film politico»

Viviana Viri ha intervistato Lula Mebrahtu, attrice e artista multidisciplinare.

Semret rappresenta il suo debutto sia nel lungometraggio sia come attrice protagonista. Com’è stato interpretare questo ruolo?

«A volte penso alle diverse vite che avrei potuto vivere se le cose per me fossero andate diversamente, soprattutto quando penso al posto da cui provengo: l’Eritrea. Semret è molto diversa da me, sono cresciuta a Londra, non ho figli. Per questo motivo mi sono avvicinata al personaggio lavorando molto sulla sua fisicità. Ancorandoti a questo aspetto, riesci poi a capire il resto. Con l’aiuto di un acting coach (Barbara Fischer, ndr) ho costruito il mio modo di essere, di comportarmi. Ho cercato un linguaggio del corpo che mi rendesse credibile nel film. Inizialmente mi chiedevo come Semret camminasse, come si comportasse quando era stanca, in che modo entrasse nelle stanze. Si tratta di un personaggio pieno di fisicità, il resto è stato più semplice. Ho tentato anche di raggiungere il suo stesso livello emozionale andando a cercare esperienze della mia vita che mi permettessero di farlo. Mi è sembrato di darle autenticità, senza fingere, ma recitando la verità della scena. La sua storia è radicata nel reale».

Come si è trovata nell’affrontare una tematica legata al suo Paese d’origine?

«Sicuramente interpretare un personaggio con un vissuto simile non è stato facile, anche perché tutti noi conosciamo almeno qualcuno che abbia subito lo stesso tipo di abusi. Per questo motivo per me molte scene sono state dure da recitare, anche se definirle dure mi sembra un po’ troppo semplicistico. Nell’interpretare Semret però non ho pensato molto ai racconti che già conoscevo o a quello che era il mio pensiero personale. Durante le settimane in cui abbiamo girato il film ero Semret e basta. Fuori dal set portavo i capelli come lei, camminavo come lei, pensavo come lei. Se avessi dato spazio a me stessa questo mi avrebbe allontanato dal personaggio. Osservare come conduceva la sua vita mi ha inoltre permesso di trarre diverse lezioni, imparando molto dal suo pragmatismo».

Lei è un’artista multidisciplinare che si divide tra musica, teatro e tecnologia. Com’è stata questa esperienza nel cinema?

«Come artista multidisciplinare sono abituata a passare da un ambito all’altro continuamente. Questa è stata la prima volta in cui ho potuto concentrarmi su un solo progetto avendo la libertà mentale per poter interiorizzare a pieno il momento, questa verità. Ed è stato molto più facile. Come in nessun altro progetto ho potuto andare in profondità senza avere insicurezze, nemmeno legate al tema trattato, che avrebbe potuto avere dei risvolti anche sulla mia famiglia. Ma Semret non è un film politico, è la storia della relazione tra una madre e una figlia che cercano di cavarsela all’interno di un sistema. Una bellissima storia in mezzo a una tempesta».

Quale è stata la sfida più grande di quest’esperienza?

«Un aspetto interessante è stato sicuramente quello legato alla lingua di Semret, che è anche la mia. Ho imparato il tigrino in casa, ma ho iniziato a leggerlo e a scriverlo soltanto adesso. È stata una sfida perché con la traduttrice abbiamo dovuto lavorare molto sul testo e sui suoni delle parole perché il mio lessico apparteneva all’infanzia e alla sfera famigliare. Il mio legame con l’Eritrea era già forte ma questo mi ha permesso di avvicinarmi ancora di più, una cultura si riesce a capire soprattutto attraverso la lingua».