L'intervista

La storia del cinema, in sordina

A tu per tu con Jason Blum, a cui il Festival di Locarno ha conferito un meritatissimo Premio Raimondo Rezzonico sabato sera in Piazza Grande
Mariella Delfanti
08.08.2022 06:00

Ci sono figure professionali che fanno la storia del cinema in un certo senso in sordina, senza che il loro nome valichi la cerchia degli addetti ai lavori. È il caso di Jason Blum, a cui il Festival di Locarno ha conferito visibilità e riconoscimento sabato sera in Piazza Grande, con un meritatissimo Premio Raimondo Rezzonico.

Con la sua casa di produzione Blumhouse, lo statunitense Jason Blum ha dato il via a progetti originali e remunerativi, malgrado il modello sostenibile a basso budget. Basti pensare a successi come Whiplash di Damien Chazelle, Get Out, di Jordan Peele, o ai nomi di cineasti rilanciati come Spike Lee con BlacKkKlansman (premio del pubblico a Locarno 2018), M. Night Shyamalan, nel thriller psicologico Split, o Barry Levinson con The Bay. Per non parlare del più grande successo di sempre della storia di Hollywood, Paranormal Activity, che, costato 15mila dollari, ne ha incassati quasi 200. Approfondiamo con lui.

Mr. Blum, lei ha prodotto tanti film estremamente popolari. Qual è la chiave di questo successo?
«Credo che il segreto stia nel fatto che noi ascoltiamo i registi con molta più attenzione di quanto facciano i produttori a Hollywood. Le faccio un esempio. Quando Scott Derrickson è venuto a proporci The Black Phone e ho letto la sceneggiatura, non mi ha convinto: mhmm, parlano al telefono, in una cantina... mah. Se questo succedesse a Hollywood, la maggior parte degli Studios, anche se fossero di fronte a uno dei più grandi artisti che ci sono in circolazione, direbbero di no. Noi ci comportiamo diversamente e sa perché? Perché possiamo permettercelo, dal momento che i nostri film non sono costosi. A Hollywood i costi preventivi sono così alti che, per i responsabili delle decisioni, il film deve essere meraviglioso e perfetto già sulla carta. Invece io faccio molto più affidamento sul regista che non sui dirigenti, nel giudizio su ciò che è perfetto e meraviglioso».

Come funziona questo sistema di produzione e come fa a garantire ai registi una libertà che non hanno con il sistema tradizionale?
«Adottiamo un modo alla francese autoriale di fare film e lo applichiamo a un cinema fatto in modo commerciale. È quello che chiamiamo una win-win combination: diamo agli autori il final-cut (cosa che tipicamente non avviene a Hollywood), e loro in cambio si impegnano a girare un film in modo economico. Questo è il patto: la rinuncia a un grosso budget in cambio del controllo. L’investimento iniziale non supera mai i cinque milioni di dollari, in cambio garantiamo al regista una percentuale sui guadagni; manteniamo un controllo sui costi fin dagli inizi dello sviluppo del progetto, facendo lavorare assieme gli operatori artistici e quelli economici. Invece il modo di fare cinema negli Studio è condizionato dal budget: più costoso è il film, più è il tempo che i registi impegnano nelle strategie relative alla loro area di libertà. In un film da duecento milioni, il tempo impiegato nella politica delle trattative corrisponde all’ottanta per cento e solo il venti per cento è impiegato a girare il film. In un nostro film da quattro milioni di dollari, il cento per cento del tempo è impiegato nel fare un buon film. Una delle lezioni importanti che abbiamo imparato nel corso degli anni è che, se si dà molta libertà agli autori, si avvia un processo di collaborazione incredibile: sono molto più reattivi e desiderosi di suggerimenti».

Come è arrivato a questo modello?
«Nei miei vent’anni, producevo film indipendenti, ma volevo fare film costosi, proprio per il semplice fatto che erano costosi: una stupidaggine. Alla fine ho prodotto Tooth Fairy, costato qualcosa come 70 milioni di dollari, una grossa cifra per me e non è stato divertente come pensavo. Proprio perché era molto costoso c’erano tante persone coinvolte nelle decisioni da prendere: almeno venticinque decidevano come doveva essere il casting. Era davvero noioso. Quando è uscito il film, è uscito anche Paranormal Activity, ma a differenza di tutti gli altri film indipendenti che avevo prodotto, questo lo hanno visto tutti e la ragione stava nel fatto che era stato distribuito da uno Studio (Paramount Pictures, ndr.). Era questa la formula: fare film indipendenti e distribuirli attraverso gli Studios. In quel momento è nata la Bloomhouse Company con il suo progetto aziendale: è questo il segreto del mio successo».

Noi ascoltiamo i registi con molta più attenzione di quanto facciano i produttori a Hollywood

Lei è spesso accostato al modello di produzione a basso costo di Roger Corman. In che cosa si sente vicino?
«Conosco e ammiro molto Roger Corman, ma siamo molto differenti. Lui lavora essenzialmente con registi alle prime armi; noi non ingaggiamo quasi mai esordienti. Uno Studio, tra un regista che ha al suo attivo due successi e due fiaschi e un principiante, sceglie il secondo; per noi è il contrario, perché l’altro sistema comporta l’investimento di molti soldi. Noi ci rivolgiamo a registi esperti, che sanno come fare un film anche in una ventina di giorni, cosa veramente difficile per uno alle prime armi. Questa è la differenza tra noi e Corman».

Ma come ha fatto a convincere una casa di produzione come la Universal, ad esempio a spendere quaranta milioni di dollari in un film che ne costava tre?
«Il punto di svolta a cui lei allude è stato The Purge. Ha avuto un ritorno economico incredibile e ci ha aperto le porte anche ad altre collaborazioni, fino a The Invisible Men, ad esempio. Ma è sempre molto molto difficile calcolare quanto costerà un film in termini di rapporto tra i costi della produzione e marketing».

Lei ha rivitalizzato un genere ritenuto di serie B, come l’horror, e vi ha travasato di contenuti politici e critici sovversivi. Perché proprio l’horror?
«Penso che l’horror sia un genere ideale, se hai dentro una passione bruciante che vuoi comunicare (e io ne ho molte), soprattutto se ci sono temi politici che vuoi divulgare. Prima di tutto però è necessario che il film sia divertente e spaventoso, altrimenti nessuno lo guarderà. Il tema deve svilupparsi organicamente all’interno del progetto: se uno parte con l’idea di fare un film di paura sul riscaldamento globale, non funziona. Mai e poi mai dirò a un regista che sono alla ricerca di storie con un messaggio, perché se lo facessi, nessuno andrebbe più a vedere il film».

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