Il senso di Bruegel per la sacra neve

La neve, certo. Una delle primissime rappresentazioni visive della neve su tavola nella storia dell’arte occidentale. Ma soprattutto la sensazione di gelo. Gelo climatico ed atmosferico ( come ormai quasi non sappiamo più concepire) ma anche gelo morale e umano di un universo così preso dalle difficoltà quotidiane del sopravvivere da non accorgersi dell’evento rivoluzionario che si è appena verificato, nell’indifferenza generale, in un miserabile angolo di uno sperduto e metaforico villaggio fiammingo. Si rimane letteralmente sbalorditi di fronte all’Adorazione dei Magi nella neve, piccola (ma immensa) tavola con cui Bruegel il Vecchio immaginò nel 1563 il tributo dei saggi d’Oriente al neonato Gesù e alla sacra famiglia tutta. Intorno a questa unica opera del grande fiammingo presente in Svizzera, la Collezione Oskar Reinhart «Am Römerholz» di Winterthur ha voluto nel 450. anniversario della morte del pittore costruire una affascinante e consigliatissima mostra monotematica, visitabile fino al prossimo 1. marzo nella meravigliosa cornice della maestosa villa/pinacoteca nei dintorni di Winterthur.
Chiavi interpretative
Altri lavori esposti, tratti in particolare dall’opera grafica di Bruegel, permettono di individuare alcune chiavi di interpretazione del complesso ed enigmatico dipinto. Tra queste, la sua caratteristica concezione del paesaggio e le questioni inerenti all’adeguamento degli eventi biblici all’attualità del tempo. La mostra riserva grande importanza pure al discorso pittorico sul contenuto cognitivo e sull’illusione della percezione visiva, continuamente affrontato nell’opera dell’artista. Esplora singoli aspetti come la ripresa del repertorio formale di Hieronymus Bosch, il ruolo dei cicli annuali, la presenza del villaggio fiammingo e l’importanza dell’imminente cambiamento climatico legato all’inizio della piccola era glaciale che caratterizzò la seconda metà del XVI secolo. Tratta anche la funzione dell’Adorazione di Winterthur nell’ambito dei numerosi dipinti sull’inverno di Bruegel (Multa pinxit, hic Brugelius, quae pingi non possunt, «Tanto ha dipinto questo Bruegel, che non può essere dipinto» scrisse Abraham Ortelius nel suo Album Amicorum intorno al 1573) un nuovo genere nella storia dell’arte, e il suo ulteriore sviluppo nel secolo successivo. Ed è davvero un mondo, per dirla alla ticinese, da «fam, füm e frecc» quello in cui Bruegel colloca la sacra scena evangelica aumentando lo spaesamento e il disorientamento dell’osservatore con l’escamotage della neve (realizzata, come hanno dimostrato autorevoli studi, solo in extremis al compimento dell’opera) che tutto confonde, tutto omologa, tutto attutisce; anche se qui non ha nulla di poetico e di romanticamente spensierato ma anzi si avverte come una difficoltà ulteriore ad una realtà quotidiana fatta di fatica, paura, sofferenza e miseria. L’osservatore si trova a contemplare la scena sacra in un’ottica di adeguamento alla contemporaneità di Bruegel ed è soltanto dopo un lunghissimo processo di elaborazione che riesce a a mettere a fuoco la reale essenza dell’opera, ossia la presenza dei tre Magi al cospetto del Salvatore appena nato ( peraltro solo accennato, da lontano, quasi indefinibilmente). Come spesso accade con Bruegel, l’essenziale (e quale essenziale in questo caso) rimane come un dettaglio da cercare e scoprire ai margini con un potente effetto metaforico. L’intero villaggio è completamente ignaro di quanto sta accadendo, anche i Magi, dimessi, passano quasi inosservati.
Leggerezza apparente
L’unica nota di apparente leggerezza e serenità è quella del bimbo in primo piano che scivola sul ghiaccio. A differenza però di tante altre volte in cui Bruegel anticipa e testimonia forme primordiali di tanti sport invernali (dal pattinaggio, al curling, all’hockey persino) qui il bimbo tiene in apprensione la madre poiché si trova nei pressi di un pericoloso buco nel ghiaccio appena creato per poter attingere l’acqua coi secchi ed in più, a far apparire la scena ancora più lontana dalla nostra sensibilità, lo scopriamo utilizzare come bob ante litteram i resti del cranio di un cavallo appena macellato. Tutte minuzie che i visitatori possono conoscere attraverso i risultati delle analisi tecnologiche da una postazione media dove, direttamente davanti all’originale (da cui non è facile comunque staccare lo sguardo), vengono invitati a confrontare ogni dettaglio delle fotografie scattate con varie tecniche. La mostra presenta pure la storia della provenienza del dipinto, la sua duplicazione in copie da parte del figlio di Bruegel e soprattutto il grande interesse del collezionista Oskar Reinhart per l’opera dell’artista fiammingo. Maestro assoluto del nordico e gelido disincanto.
«Am Römerholz»
Oskar Reinhart (Winterthur, 1885-1965) figlio di Theodor Reinhart e di Lilly Volkart, discendeva da una importante dinastia di commercianti. Il padre dirigeva a Winterthur la ditta Gebrüder Volkart che sotto la sua gestione assurse al ruolo di leader nell’importazione di cotone dall’ India verso l’Europa. Oskar dovette entrare suo malgrado nell’impresa di famiglia ma a partire dai 39 anni abbandonò il commercio per dedicarsi alla sua grande passione: l’arte. L’enorme collezione che aveva cominciato a costruire fin da giovane venne collocata nella splendida villa «Am Römerholz» costruita in collina nel 1915 da Maurice Turrettini cui, dallo stesso architetto, venne affiancata nel 1925 un’imponennte galleria- pinacoteca attigua all’edificio. Fin dall’inizio Reinhart volle creare un museo dell’arte europea a complemento delle collezioni pubbliche svizzere. Passata alla sua morte alla Confederazione la collezione sbalordisce soprattutto per quanto concerne la pittura francese dell’Ottocento(Renoir, Manet, Cézanne, Courbet, Gericault, Delacroix) pur contemplando altri preziosi fiori all’occhiello proprio come la tavola di Bruegel il Vecchio.