Letteratura

Quando i bizantini amoreggiavano in versi

Una fresca traduzione italiana rinnova il lirismo di un classico greco del XIV secolo
Saffo e Alceo in un celebre dipinto di Sir Lawrence Alma-Tadema del 1881.
Carlo Carena
12.07.2019 06:00

Tra i canzonieri amorosi che il tardo Medio Evo ci ha regalato, quelli del Dolce Stil Novo e del Petrarca, s’inserisce dalla letteratura bizantina un anonimo Giochi d’amore, databile anch’esso al secolo XIV. Pur consistendo di un centinaio di rapidi schizzi e brevi liriche incolonnate in piccoli gruppi di argomenti, sentimenti o strutture, essi ci forniscono, oltre al piacere della loro lettura in sé e per sé e scene graziosissime di commedia e meste di tragedia, anche garbate informazioni sugli ideali fisici e amorosi dell’uomo e della donna in quell’età di menestrelli e di fate e in quei luoghi splendidi e voluttuosi.

Ma ci si ricorda anche dell’ode latina di Orazio in cui il poeta rivolto al giovane amico Taliarco, troppo pensieroso, lo esorta a lasciar perdere le inutili preoccupazioni per il domani; si rivolga piuttosto, finché è giovane, ai piaceri dell’oggi: va’ sui campi sportivi e a sera nella piazzetta in cui nascosta ti attende una fanciulla, col suo amabile sorriso e i suoi teneri sussurri. Ed ecco questi «sussurri» riferiti come «giochi d’amore» negli schizzi e liriche in greco demotico dell’anonimo bizantino, rivolti ora dall’uomo alla donna, ora dalla donna all’uomo, in un intreccio dove più commovente di lui, che occupa la scena altisonante, è lei, che invece canta come nel suo angolo buio la fanciulla oraziana con voce sommessa e trepidante, suscitando l’ammirazione del lettore per questa intuizione psicologica dell’anonimo poeta.


Sensualità più smorzata

Così si ascolta dell’innamorato: «Tu ramo d’arancio, grappolo di vite, boccetta d’acqua di rose, giglio e fiore di pruno, ti ho fissato con cera e mastice, per baciarti continuamente»; e della fanciulla: «Bello, con il collo slanciato, tesoro del mio cuore». E ancora lui, con le sue immagini colorite e profumate: «Signora mia, tu sei il fiume dalla corrente d’oro e di miele, tu la rugiada della notte e la brina dell’inverno, la luna della sera e il sole del giorno, la stella del mattino e la lampada del palazzo»; e lei: «Mi hai tormentato il cuore e lo hai immerso nel sangue. Mi hai sollevato e posto sopra un masso, poi mi hai spinta e io sono caduta». Ma fra questi sospiri e desideri si può scorgere anche un filo narrativo, piccole scene amorose. Quando t’incontrerò di nuovo, dice il giovane, e potrò conversare con te, ti racconterò ciò che per te ho sofferto, per un amore affannoso e un desiderio che è stato disprezzato; quando sarai presso di me ti intratterrò con le pene che continuamente soffro per te; e al vedere le mie lacrime tinte di sangue, non potrai non restarne afflitta e intenerita; ascolta dunque le ghirlande di versi che ho intrecciato per te e che tengo nascoste nel mio cuore.

Ma anziché alla disperazione e più che alla tragedia della gelosia o del diniego, come spesso a casa nostra, c’è piuttosto da parte di questo spasimante una contemplazione smisurata e una devozione pronta a tutto, in uno sfolgorio di colori e in una nuvola di profumi. Si pensa continuamente alle odalische velate, al biblico Cantico dei cantici: con una sensualità più smorzata, ma somiglianza di sguardi e di sospiri.

Sulla soglia del libretto, quasi in metafora di quanto seguirà, l’uomo si dice anelante a cingere la strada dove appare e cammina tale creatura, di filari di meli e di cotogni, di aranci e di cedri, di lauri e di mirti e di rose. per proteggerla dai raggi del sole, affinché non imbruniscano la sua pelle delicata. E subito lei di rimando: «Il mio povero cuoricino ti vuole molto bene, o mio signore agile e slanciato come un giunco... Mio pettirosso onorato e leggiadro, onore dei forti, ornamento dei valorosi. Nessuna donna ti goda, nessuna abbia in te la sua gioia, se non io povera e raminga, che tanto ho patito tutti i giorni dell’anno per timore che tu prendessi il volo verso l’amore di un’altra». C’è, come si vede, in questo gioco d’amore una semplicità quasi infantile; è espresso non da sapienti letterati ma da voci giovanili rinviate da una parte all’altra.

Ma cos’è mai, alla fin fine, questo amore così bello, tanto bello che valga la pena di cantarlo, di sperimentarlo e di soffrirlo? Esso incanta ma fa soffrire anche il poeta bizantino, come a suo tempo Saffo a Lesbo e Catullo a Roma. Il bel fanciullo Cupido è armato di frecce che, anche se dorate, feriscono; Amore è un terribile sovrano alato, a cui non si resiste ma che si subisce; il suo sguardo spaventa, toglie forza alle ginocchia e fa tremare le mani, ammutolisce la bocca; non varrà la pena d’invocarlo che passi, affinché passino le sue pene? Verrà pure un giorno in cui finalmente «come il giardiniere butta via il cocomero ingiallito, la zucca secca e il melone marcio, così anch’io il mio amore».

Ruggiero Bonghi, il letterato e politico napoletano che nel suo esilio sul Lago Maggiore passò molte ore d’amicizia e di conversazione fra Lesa e Stresa con Antonio Rosmini e Alessandro Manzoni, si occupò più tardi anche di questo canzoniere esotico e remoto nel tempo, ripescato e pubblicato per la prima volta in Germania in quegli anni; ne tradusse anche parecchio e scrivendone in un capitolo delle sue Horae subsecivae (1883) ne approfittò, come chiunque si sente portato a fare, per riflettere sulla poesia d’amore, una passione che «ripete molto e inventa poco», pur essendo la più copiosa fonte di canto; mettilo da parte, e cosa resta di tutta la poesia? Anche nei poeti più alti e ricercati è il sentimento più immediato e quello della poesia colta non differisce molto da quello della poesia popolare. La lettura di questi Giochi d’amore, oltre alla delizia di sentire la frescura della brezza («l’aura» dice Bonghi) del lontano Oriente, lontano nel tempo e nello spazio, rende palpabile e impartisce anche questa lezione.

A darcene una fresca traduzione italiana moderna è ancora una volta Lucio Coco, uno studioso che da qualche tempo in qua scava nella letteratura bizantina e ne trae questi tesoretti ignoti e inattesi per il profano. Se si pensa che la civiltà bizantina durò mille anni e che vi confluirono le secolari culture greca, latina, araba, si può ben credere che sia un deposito senza fondo.