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Il calcio, i missili e un’altra normalità: «Chi non la conosce fatica a digerirla»

Il Lugano, Netanya e il ritorno contro l’Hapoel Be’er Sheva – La parola al giornalista Ori Cooper, che ci racconta il punto di vista israeliano
Il Diamond Stadium, struttura in cui milita il locale Maccabi Netanya, stasera ospiterà la sfida di ritorno tra bianconeri e israeliani. © KEYSTONE
Nicola Martinetti
11.08.2022 06:00

«La partita di ritorno contro il Be’er Sheva si giocherà a Netanya». E poi, una pioggia di reazioni contrastanti. Da una parte la preoccupazione dei tifosi bianconeri, dall’altra il risentimento di quelli israeliani. Con la sezione commenti dei canali social del FC Lugano quale punto d’unione tra due mondi diversi. «In fondo, volendo sintetizzare, il nocciolo della questione è proprio questo: la nostra normalità differisce dalla vostra. E tutto il resto non è che una semplice conseguenza».

Una volontà legittima

L’osservazione è di Ori Cooper, giornalista sportivo del quotidiano israeliano «Yedioth Ahronoth», oltre che analista tv per varie emittenti locali. Il quale, da noi interpellato, accetta di illustrare il punto di vista di chi vive ogni giorno la realtà dello Stato ebraico. «E per farlo, partirei proprio dal tanto discusso cambio di sede della sfida odierna - prosegue Cooper -, poiché si tratta di un caso emblematico. So che la volontà del Be’er Sheva di mantenere il match al Turner Stadium ha fatto parecchio discutere in Ticino. Ma qui in Israele la richiesta è stata percepita come legittima. E la decisione finale dell’UEFA, per certi versi, incomprensibile». Il perché è presto detto, anche se di difficile lettura per coloro che sono esterni a determinate dinamiche. «Chi vive qui sa bene come interpretare i conflitti armati che di tanto in tanto riaffiorano, tornando d’attualità. La nostra non è una guerra costante, come quella che ad esempio si sta combattendo in Ucraina. Bensì tende ad andare a fiammate, con picchi di violenza alternati a momenti di tregua. E credetemi, quando viene proclamato un cessate il fuoco, il nostro Paese torna a essere come qualsiasi realtà occidentale. Non si direbbe mai che fino a poche ore prima venivano scagliati dei missili».

Tra pallone e sirene

L’elemento di disturbo, che ha poi di fatto spinto l’UEFA a cambiare la sede del match odierno, è proprio questa sorta di imprevedibile «da 0 a 100» in grado di fare breccia in qualsiasi momento. «Sì, purtroppo è un aspetto che non possiamo né cambiare né ignorare - ammette Cooper -. E per questo motivo, al pari del punto di vista israeliano, comprendo perché il Lugano abbia richiesto e ottenuto il trasferimento dell’evento più a nord, lontano dalla Striscia di Gaza. Chi vive nel sud del Paese sa che da un momento all’altro potrebbero risuonare le sirene. E sa anche come reagire, attivandosi per ridurre al minimo i rischi. Chi però è estraneo a tutto ciò, difficilmente digerisce determinate situazioni. È un problema che si ripercuote su tanti aspetti della nostra vita. Compreso il calcio».

Tanti giocatori e tecnici stranieri, giunti in Israele, ripartono dopo poco tempo poiché preoccupati per la loro incolumità. Purtroppo è un prezzo che il nostro calcio è costretto a pagare
Ori Cooper, giornalista

Già, il pallone. Una passione purtroppo non immune ai missili. «Faccio sempre l’esempio dello spagnolo Óscar García, ex giocatore del Barcellona e oggi allenatore dello Stade Reims (Ligue 1), che in passato ha guidato il Maccabi Tel Aviv. Ricordo che durante la sua esperienza qui, nel bel mezzo di un match di campionato, sono risuonate le sirene. Poche ore più tardi ha dato le dimissioni e ha lasciato il Paese assieme alla sua famiglia. La sua storia è simile a quella di tanti giocatori e tecnici stranieri, giunti in Israele e poi ripartiti dopo poco tempo poiché preoccupati per la loro incolumità. Purtroppo è un prezzo che il nostro calcio è costretto a pagare». L’eventualità che un incontro venga scelto quale bersaglio di un attacco terroristico, secondo Cooper, resta invece molto remota. «Specialmente se il match coinvolge una squadra straniera - spiega il nostro interlocutore -. Non sono un esperto di politica, ma ritengo che nessuna delle fazioni implicate nel conflitto armato abbia interesse a colpire terzi, rischiando importanti ripercussioni. Di tanto in tanto, per contro, accade che una partita venga trasferita di sede o rinviata perché sono in corso dei bombardamenti in alcune zone del Paese. Ma non è comunque un fatto usuale».

Niente bolgia a Netanya

A proposito di trasferimenti, questa sera - per poter supportare la loro squadra del cuore - molti tifosi del Be’er Sheva saranno chiamati a un viaggio in macchina di circa un’ora e mezza, dal deserto del Negev alla costa a Nord di Tel Aviv, per raggiungere Netanya. L’atmosfera attesa all’interno del Diamond Stadium, l’infrastruttura locale, non è però quella che si respira al Turner Stadium. E questo non per colpa dei caldi supporter dell’Hapoel. «Sono certo che loro, come di consueto, si faranno sentire a gran voce - ci spiega Cooper con un sorriso -. E molti di essi, peraltro, faranno meno strada per raggiungere Netanya, perché pur essendo originari di Be’er Sheva vivono magari più a nord, a Tel Aviv o Gerusalemme. Nonostante i loro sforzi, purtroppo, temo però che l’ambiente risulterà più freddo. E questo perché rispetto agli stadi classici, quello di Netanya non comprende le curve. Conta solo due lati e non quattro, dunque di fatto l’impatto del tifo verrà dimezzato. Ma sono certo che al Be’er Sheva basterà comunque per completare l’opera, dopo il 2-0 dell’andata». Al Lugano il compito di dimostrare il contrario.

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