COVID lunga, sindrome post-COVID o, come si usa parlarne recentemente, PASC (che sta per Post-acute sequelae of Sars-CoV-2 infection ossia conseguenze post-acute da infezione di Sars-Cov-2). Ci riferiamo ad effetti del coronavirus che durano a lungo nel tempo e che colpiscono un’importante fetta di contagiati che sviluppano la malattia. Dolori, debolezza o tosse che rimangono per settimane.
Effetti anche per 6-8 mesi
L’epidemiologo dell’Università di Zurigo Milo Puhan (nella foto qui sotto) ha condotto uno studio di coorte (un tipo di studio osservazionale usato nella medicina) che potrebbe fornire maggiore chiarezza su questo aspetto. Gli ultimi risultati scientifici, pubblicati sulla piattaforma «medRxiv», si basano su un totale di 431 partecipanti e, malgrado non siano ancora stati sottoposti a peer-review (ossia alla revisione critica cui sottostanno le ricerche di questo tipo), mostrano già chiaramente la tendenza in atto. Un contagiato su quattro, infatti, non si riprende completamente dall’infezione da Sars-CoV-2 per sei-otto mesi da quando ha sviluppato la malattia. L’80% delle persone colpite ha parlato di stanchezza, mancanza di respiro o sintomi di depressione.

Una percentuale piccola ma di un grande numero
Gli autori della ricerca hanno tuttavia precisato, come riferisce il Tages-Anzeiger, che non tutti questi problemi sono gravi né sono necessariamente legati al coronavirus. «Quello che il nostro studio mostra è che una grande percentuale di coloro che sono stati infettati può sviluppare una qualche forma di sindrome post-COVID». L’epidemiologo Milo Puhan, che ha guidato la ricerca, ha inoltre precisato: «Circa il 2-3% delle persone sviluppa gravi problemi medici a lungo termine». Ma l’esperto aggiunge anche che è sbagliato concentrarsi solo su questi casi, anche perché - malgrado la percentuale sia esigua - in Svizzera ci sono stati oltre mezzo milione di infetti e inoltre «anche chi non ha effetti gravi risente di conseguenze». Detto ciò, Puhan suggerisce la creazione di servizi per il sostegno di questi pazienti allo scopo di evitare ulteriori ospedalizzazioni.
Evitare il ritorno in ospedale
Quasi la metà dei partecipanti allo studio ha infatti riferito di aver avuto almeno un contatto aggiuntivo con il sistema sanitario relativo alla COVID-19, incluse le visite dal medico di base e le chiamate a una hotline. Il 10% di coloro che sono dovuti andare in ospedale sono stati poi riospedalizzati almeno una volta per sintomi persistenti o complicazioni. In circa un caso su 20, è poi stata diagnosticata una condizione legata al coronavirus. I motivi di ricaduta sono principalmente imputabili a problemi ai sistemi respiratorio, cardiovascolare, cerebrale o cutaneo.
I limiti dello studio
Nel loro documento, i ricercatori fanno presente quali sono le limitazioni che potrebbero parzialmente distorcere la veridicità dei risultati ottenuti. In particolare il fatto che, durante la prima ondata, la quantità di test disponibili era limitata, motivo per cui sono stati registrati principalmente i malati che hanno sviluppato sintomi da moderati a gravi. Inoltre, le persone che sono più preoccupate per la propria salute potrebbero essere state più propense a partecipare allo studio rispetto a chi non ha avuto problemi: di tutti i pazienti che l’Università di Zurigo ha contattato, la percentuale di quelli che si sono resi disponibili a partecipare è stata di circa un terzo del totale.