Sono passati quasi tredici anni dal giorno in cui la polizia si è presentata al Club Corona di Pambio arrestando il gerente e un dipendente del locale a luci rosse. Tredici anni, ma il classeur di questa inchiesta non può ancora essere archiviato. Accogliendo il ricorso del dipendente, che al night era un addetto alla sicurezza, il Tribunale federale ha rispedito l’incarto alla Corte di appello e revisione penale, alla quale l’uomo si era rivolto dopo essere stato condannato in Pretura a una pena pecuniaria sospesa per promovimento della prostituzione. Il processo si era concentrato su una serie di regole che vigevano in quel periodo al Corona. Secondo l’accusa erano prova di un sistema di controllo e costrizioni nei confronti delle ragazze, mentre secondo le difese quelle «norme» erano dettate solo da questioni di buon costume e di sicurezza del locale e delle ragazze stesse, che potevano andare e venire quando volevano. Proprio le donne, rispondendo alle domande degli inquirenti, hanno giocato un ruolo decisivo nelle indagini, ma qualcosa a un certo punto è andato storto.
Un’assenza pesante
La dichiarazione di una donna in particolare ha permesso «di accertare l’esistenza di regole riguardo l’orario obbligatorio di presenza al bar delle prostitute dalle 16 fino alla 1 e il prezzo minimo per la prestazione sessuale - recita la sentenza del Tribunale federale - e sono quindi state rilevanti per il giudizio di condanna anche del ricorrente». Il problema è che la testimonianza, come altre, è avvenuta senza che fossero presenti l’imputato e quello che allora era il suo patrocinatore. E una successiva richiesta di ripetere l’interrogatorio - formulata dal nuovo e attuale avvocato dell’uomo, Costantino Castelli - è stata respinta dal giudice competente. È vero che il legale precedente, a un certo punto della procedura, con il suo assistito ancora in carcere, aveva scritto che serviva ancora un solo confronto, quello con il coimputato, ma secondo i giudici di Mon Repos «non è stata formulata chiaramente una valida rinuncia al diritto di partecipare agli interrogatori di testimoni e di poterli eventualmente controinterrogare» in seguito. Si trattava piuttosto di «una considerazione volta a sollecitare la messa in libertà del ricorrente». Basando il proprio giudizio su dichiarazioni a carico dell’accusato rilasciate in sua assenza, quindi, «i giudici cantonali hanno violato il diritto federale».
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