L'intervista

«Ho visto l'orrore negli allevamenti intensivi»

Giulia Innocenzi racconta il suo documentario «Food for Profit», un viaggio nei recessi più bui dell'industria alimentare
© CDT / CHIARA ZOCCHETTI
Prisca Dindo
07.04.2024 06:00

Giornalista e conduttrice televisiva italiana, Giulia Innocenzi, nata a Rimini nel 1984, è la regista con Pablo d’Ambrosi di «Food for Profit». Un documentario che mette a fuoco l’industria degli allevamenti intensivi e i meccanismi di finanziamento con cui l’Unione Europea la sovvenziona a suon di miliardi. Il film, che verrà proiettato il prossimo 13 aprile al Cinestar a Lugano, sta diventando un caso. Uscito nei cinema a fine febbraio, «Food for Profit» in Italia è al quarto posto per incassi giornalieri. Un successo, ottenuto soltanto grazie al passaparola.

Giulia Innocenzi, come è nata l’idea di questo documentario?
«Da più di dieci anni mi occupo di inchieste legate agli allevamenti intensivi e al maltrattamento degli animali. Questa volta però non ho voluto focalizzarmi su un unico caso, ma ho deciso di rivelare il sistema nel suo complesso. Perciò ci siamo mossi in più paesi dell’Ue, perché gli allevamenti intensivi sono finanziati con i soldi che piovono da Bruxelles».

Il sottotitolo del documentario che avete scelto è «387 miliardi di motivi per cui non vogliono che tu veda questo film». Perché?
«Trecento ottantasette sono i miliardi della politica agricola Ue. O meglio: è il budget europeo destinato all’agricoltura. L’idea di un pacchetto di aiuti finanziari nasce negli anni ’60, con il buon proposito di sostenere il reddito degli agricoltori. Purtroppo oggi questi miliardi finiscono soprattutto nelle tasche dei grandi gruppi industriali. Nel frattempo tantissime fattorie familiari hanno dichiarato forfait. I dati statistici dicono che in Europa da una parte sono diminuiti gli allevamenti; dall’altra sono aumentati gli animali allevati. Ciò significa che c’è una concentrazione di bestiame. Gli allevamenti sono diventati sempre più grandi e impattanti».

Quale è il messaggio che volete far passare?
«Il nostro documentario dimostra come il sistema di produzione di cibo sia diventato insostenibile per l’ambiente, per gli animali e per la salute di tutti noi. Insieme al regista Pablo D’Ambrosi, vogliamo denunciare l’ipocrisia dell’Unione europea, che dietro al millantato Green Deal - il progetto che mira a rendere l’Europa climaticamente neutra e a proteggere il nostro habitat naturale - si nasconde il finanziamento degli allevamenti intensivi. Lo fa con quasi il venti per cento del suo budget in modo diretto e indirettamente attraverso i sussidi alle coltivazioni che non finiscono a noi umani, ma agli animali rinchiusi negli stabilimenti».

Quanto è durata la vostra inchiesta giornalistica?
«Cinque anni. Sono moltissimi. Durante le nostre inchieste mascherate, abbiamo incontrato innumerevoli ostacoli. A partire dai problemi legali. Non sa quante volte ho pensato che non saremmo mai riusciti a finire «Food for Profit». Invece eccoci qui, nella top ten dei film più visti nei cinema italiani grazie al passaparola e ai social. Per noi questo successo è un piccolo miracolo, visto che non abbiamo trovato né una casa di produzione né una di distribuzione. È la prova però che oggi c’è più consapevolezza: la gente vuole sapere cosa c’è nel piatto in cui mangia».

Cosa avete scoperto negli allevamenti?
«I nostri investigatori si sono infiltrati con le telecamerine nascoste negli allevamenti di diversi paesi europei. Il quadro che esce dall’inchiesta è distante anni luce dagli spot bucolici che ci propina la pubblicità. I maltrattamenti di polli, maiali, mucche, pecore e tacchini avvengono in maniera sistematica. Abbiamo scoperto che gli animali considerati scarti vengono ammazzati perché, come spiega un allevatore di polli in Veneto, «costituiscono una perdita in termini di mangime». Abbiamo scoperto l’inquinamento gravissimo che provocano queste tipologie di allevamenti: ad esempio i liquami di uno stabilimento di maiali spagnolo penetrano nelle falde acquifere con le conseguenti morie di pesci. In Germania la proprietaria di uno stabilimento imbottiva di antibiotici gli animali per evitare che morissero a causa del sovraffollamento e delle malattie. Sempre nel Veneto, al nostro investigatore sotto copertura veniva insegnato a uccidere i polli a bastonate».

Avete raggiunto anche la Polonia…
«Le nostre camere nascoste hanno pure documentato ciò che succede negli allevamenti di polli in Polonia, dove l’aria è irrespirabile a causa dell’elevata concentrazione di ammoniaca. Qui le multinazionali estere hanno occupato tutte le praterie spopolando intere regioni con gli allevamenti intensivi. La vita degli abitanti è stata stravolta dall’inquinamento ambientale della produzione intensiva, che produce profitto per tutti tranne che per loro».

Anche chi lavora in questi stabilimenti non se la passa troppo bene…
«Vero. Ad esempio abbiamo scoperto che nel più grande macello d’Europa presente in Germania i dipendenti - quasi tutti rumeni - lavorano a ritmi infernali. In Italia i migranti vengono pagati in nero e lavorano a cottimo. Lo sfruttamento è ovunque».

Intanto, negli ambienti ovattati degli uffici di Bruxelles…
«A Bruxelles il nostro finto lobbista ha avvicinato con la telecamera nascosta diversi europarlamentari, proponendo loro mostruosi progetti elaborati da una fantomatica azienda di genoma editing: maiali a sei zampe, mucche con due apparati riproduttivi. Ebbene: nessun eurodeputato ripreso di nascosto ha detto «no grazie, voi siete matti!», anzi: tutti si sono mostrati interessati, preoccupati soltanto di come porre la questione all’opinione pubblica».

«Food for Profit» è soltanto un documentario, oppure c’è di più?
«È un documentario politico. Non ci limitiamo a fotografare l’orrore ma proponiamo soluzioni, a partire dallo stop immediato ai sussidi pubblici agli allevamenti intensivi. Non dobbiamo aspettarci risposte ai problemi che affliggono il Pianeta soltanto dall’alto. Noi cittadini abbiamo il dovere morale di guidare i nostri leader verso decisioni che non riescono più a prendere, essendo in balìa delle lobby che promettono loro voti in cambio dei sì a misure in loro favore. Dobbiamo essere più forti delle lobby e guidare i politici a prendere decisioni giuste».

Quale è l’immagine più terribile che le è rimasta impressa durante le inchieste?
«Quando sono entrata di notte in un allevamento di suini. Davanti a me i maiali commettevano atti di cannibalismo. Succede, quando gli animali sono costretti a vivere in condizioni orribili, chiusi in recinti microscopici, senza luce naturale, uno sopra l’altro. Il ricordo dei loro grugniti terrorizzati mi fa venire i brividi ancora oggi».

Il sogno nel cassetto di Giulia?
«Continuare a fare il mestiere che faccio, che è il mestiere più bello del mondo. Devo ammettere però che con “Food for profit» ho scoperto il fascino del documentario».

Secondo lei ci sarà un giorno senza allevamenti intensivi?
«Sarà la storia a giudicarci. Quindi spero che tra trecento anni le future generazioni potranno dire: pensa a che livello basso era arrivata l’ umanità quando rinchiudeva gli animali in quelle condizioni, provocando quelle conseguenze climatiche devastanti! Lo spero davvero, perché questo vorrà dire che quello sarà un futuro senza più torture ».

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