L'allarme

«Gli allevamenti intensivi di pesce stanno rovinando i nostri mari»

Abbiamo scambiato due chiacchiere con il regista e giornalista Francesco De Augustinis che in occasione della tappa massagnese del Festival du Film Vert presenterà il suo documentario «Until the End of the World»
© Francesco De Augustinis
Mattia Darni
05.04.2024 10:30

Film, documentari e cortometraggi dedicati all’ecologia e all’ambiente per approfondire temi importanti, esplorare soluzioni vicine e lontane, interrogarsi, scoprire, meravigliarsi e ridere: è ciò che propone il Festival du Film Vert che arriva in Ticino con due tappe: domani, 6 aprile, al Cinema Lux di Massagno e sabato 13 aprile al Cinema Rialto di Locarno (per il programma completo si veda il box in fondo alla pagina). Ricco il cartellone della manifestazione che, accanto alle proiezioni (alcune delle quali seguite da discussioni di approfondimento), prevede la possibilità di consultare, nell’atrio del Lux, una selezione di libri dedicati ai temi affrontati dal Festival curata dalla Libreria del Tempo (sabato 6), di partecipare alle porte aperte della Fondazione il Gabbiano di Muralto (sabato 13 alle 15.00) e all’inaugurazione della nuova sede dell’Oggettoteca del Locarnese (sabato 13, ore 18.00).

Un viaggio alla fine del mondo

Cuore pulsante della manifestazione, ad ogni modo, sono film e documentari. Tra questi troviamo Until the End of the World del regista e giornalista italiano Francesco De Augustinis. Il lavoro, che sarà proiettato domani, 6 aprile, alle 21.15 al Lux di Massagno, è un’indagine «fino alla fine del mondo» sull’impatto ambientale e socio-economico degli allevamenti intensivi di pesce. Al centro del documentario, in particolare, la produzione di spigole, orate e salmoni. «Until the End of the World è il terzo capitolo di una serie di inchieste incentrate sulla sostenibilità alimentare e fa seguito a un lavoro sulla deforestazione e a uno sugli allevamenti intensivi di terra», esordisce Francesco De Augustinis. «Il film che presenterò a Massagno è il frutto di tre anni di lavoro e intende denunciare quella che viene venduta come una soluzione alla crescente domanda alimentare da parte della popolazione mondiale».

A spingere Francesco De Augustinis e la sua squadra a indagare sull’industria dell’acquacoltura è stata una semplice costatazione. «A insospettirci è stato il fatto che fondi pubblici destinati al Green Deal europeo e alla Blue Transformation venissero destinati alla costruzione di allevamenti intensivi di pesce», spiega il nostro interlocutore. «Abbiamo perciò iniziato a indagare come fosse possibile che tali allevamenti venissero considerati rimedi sostenibili».

Il problema del pesce d'allevamento è che consuma molta più carne di quanta ne produce

Le indagini condotte, in effetti, hanno dimostrato che l’allevamento intensivo di pesci porta con sé diverse criticità. «Pensando in particolare a Grecia e Turchia, i problemi sono principalmente due. Il primo: è andata distrutta l’attrattività turistica delle zone in cui si è insediata l’industria dell’acquacoltura perché il paesaggio è stato sacrificato per far spazio alle vasche di allevamento dei pesci. Il secondo problema riguarda l’impatto ambientale che hanno questi allevamenti: l’ammassarsi di molti esemplari in ambienti angusti nei quali le correnti sono minime porta all’accumularsi di deiezioni, mangime non consumato e farmaci che vanno a inquinare l’ambiente circostante creando delle zone morte dove prima, invece, c’erano paradisi di biodiversità».

Un discorso paradossale

Come accennato in precedenza, gli allevamenti intensivi di pesce vengono pubblicizzati come una risposta alla crescente domanda di cibo da parte della popolazione mondiale e alla conseguente pressione su determinate specie animali a rischio di estinzione perché prelevate in quantità eccessive dall’industria alimentare. Quello intavolato dall’industria dell’acquacoltura, secondo De Augustinis, è tuttavia un discorso paradossale. «In effetti non è vero che la produzione di pesce d’allevamento va a sciogliere il nodo della sovrapesca. Ad essere allevati sono infatti quasi esclusivamente pesci carnivori per nutrire i quali si continua a pescare in maniera eccessiva. Until the End of the World mostra dunque come il problema dell’overfishing si sia in realtà spostato dal Mediterraneo all’Africa occidentale. Qui l’impatto è stato devastante poiché le popolazioni locali si sono viste sottrarre il pesce necessario al proprio sostentamento alimentare ed economico: gli indigeni hanno così iniziato a pescare pesci giovani mettendone a rischio il ciclo riproduttivo e quindi la disponibilità futura. Un ulteriore problema delle specie d’allevamento è poi che consumano molta più carne di quanta ne producono».

Ma quali sono le zone più colpite? Ancora De Augustinis. «Nell’area mediterranea, come accennato, le zone più colpite dall’attività dell’industria dell’acquacoltura sono la Turchia e la Grecia. Seguono a ruota Spagna e Italia che però, per fortuna, hanno una legislazione più severa e quindi non è possibile insediare allevamenti vicino alle coste. Guardando alla produzione di salmone, invece, particolarmente interessate dal fenomeno degli allevamenti intensivi sono Norvegia, Scozia e Cile. Per quanto riguarda invece la pesca di pesci da utilizzare come mangime negli allevamenti, ad essere colpite sono principalmente le acque peruviane e quelle dell’Africa occidentale (Marocco, Senegal, Gambia e Mauritania)».

A mancare non sono tanto le disposizioni per implementare un'industria dell'acquacoltura che sia sostenibile, bensì i controlli

A questo punto, tuttavia, sorge un dubbio: se gli allevamenti intensivi hanno effetti così nefasti a livello ambientale e socio-economico nelle zone in cui si insediano, come mai l’Organizzazione delle Nazioni unite per l'alimentazione e l'agricoltura (FAO) ha eletto l’acquacoltura a uno dei pilastri della Blue Transformation? Possibile che abbiano preso un abbaglio di tale portata? «Abbiamo più volte chiesto alla FAO come mai sostenesse in maniera così convinta l’industria dell’acquacoltura e abbiamo ricevuto risposte di diversa natura, nessuna delle quali davvero convincente», chiarisce De Augustinis. «Innanzitutto ci è stato detto che il pesce è meglio della carne rossa. Un’altra risposta è stata che la FAO promuove principalmente forme sostenibili di acquacoltura quali, per esempio, piccoli allevamenti di pesci non carnivori, di alghe e di cozze. Non è invece chiaro perché accettino parimenti gli allevamenti intensivi di specie carnivore. In realtà, poi, anche per quest’ultima tipologia di allevamento la FAO fornisce diverse informazioni su come implementarla in maniera corretta e sostenibile: il fatto è che manca un controllo sui metodi di produzione. In Grecia, per esempio, il problema è che l’agenzia di certificazione della sostenibilità ambientale degli allevamenti ittici è pagata dalla stessa industria dell’acquacoltura. A livello di singoli Stati, poi, c’è un mix di mancanza di leggi e di controllo della loro applicazione qualora ci siano. Il modus operandi di molti Paesi, inoltre, è di lasciar inizialmente fare alle aziende quello che vogliono in modo tale che si insedino su suolo nazionale e generino indotto economico. Una volta installate, si cerca quindi di metter loro dei freni».

Cambiare paradigma

Considerando però che la richiesta di cibo a livello mondiale sembrerebbe aumentare di anno in anno e che soluzioni come gli allevamenti intensivi non sono praticabili, chiediamo allora al nostro interlocutore quale sia la soluzione per far fronte alle necessità di tutti. «Innanzitutto, se le risorse fossero distribuite in maniera efficiente a livello globale probabilmente non ci sarebbe bisogno di aumentare la produzione di derrate alimentari. I pesci che vengono allevati poi appartengono a specie pregiate che solo una fetta esigua della popolazione mondiale può permettersi: non è quindi vero che attraverso questa forma di produzione alimentare si risponde ai bisogni delle aree povere del pianeta. Per consumare meno carne bisogna inoltre consumare più alimenti di origine vegetale», conclude Francesco De Augustinis.

Sono due le tappe ticinesi previste nel programma del Festival du Film Vert: Massagno e Locarno. Ad aprire le danze, sabato 6 aprile alle 14.00 al Cinema Lux di Massagno, sarà il film di Samantha Duris e Olivier Perrot «Virage vers le futur» a cui seguirà una discussione sul tema della mobilità alternativa in Ticino con Francesca Cellina, ricercatrice all'Istituto Sostenibilità applicata all'ambiente costruito della SUPSI e coordinatrice del progetto MixMyRide. Alle 16.00 verrà quindi proiettato «Plastique, le suicide collectif?» di Peter Charaf. Dalle 17.45 sarà invece proposta una selezione di cortometraggi. Alle 20.30 il pubblico potrà poi assistere al film di Philippe Blanc «Il saccheggio del mare» a cui seguirà il docu-film di Francesco De Augustinis «Until the End of the World». Dopo le due proiezioni, infine, si terrà una tavola rotonda con i due registi e la direttrice di Sea Shepherd Switzerland, Natalie Maspoli Taylor. Sabato 13 aprile il Festival si trasferirà al Cinema Rialto di Locarno dove, alle 17.00, sarà proiettato il lungometraggio di Yves Magat «Lanceurs de défis: solidaires, circulaires, durables». Alle 20.00 sarà invece proposto il lavoro di Olmo Cerri intitolato «Seminterra». Il tour ticinese del Festival du Film Vert si chiuderà infine alle 22.00 con «Sœurs de Combat» di Henri de Gerlache. Programma dettagliato e biglietti al sito internet festivaldufilmvert.ch.
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