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Lugano-Roma, solo andata: ma che senso ha Milano-Cortina 2026?

E ancora: chi vuole comprare Repubblica e la Stampa? Marcello Pelizzari e Carlo Tecce si confrontano sui temi più caldi a cavallo del confine
©MASSIMO PERCOSSI

Carlo, mi sono ripreso dall'influenza e noto che alcuni colleghi, in Italia, sono in sciopero. C'è questa questione di Gedi e della vendita di Repubblica e della Stampa. Mi puoi spiegare un po' che cosa sta succedendo?
«Sì, stiamo assistendo alla vendita, o alla svendita, dell'ultimo giornale di un campo progressista in Italia. Non parliamo di gusti. Parliamo di fatti, cronaca. Repubblica rappresenta una colonna del centrosinistra e lo è stata, per anni, anche del Partito Democratico. Poi Scalfari, Eugenio Scalfari, aveva simpatie politiche altalenanti, è vero. Era legatissimo, per dire, a Ciriaco De Mita, quindi anche alla Democrazia Cristiana, diciamo quella di sinistra. Repubblica, con tutta la sua ambizione, anche tutta la sua grandezza nei numeri, nei giornalisti, nelle redazioni, nelle edizioni locali, in tutto quel circuito di giornali locali, tra l'altro, che aveva creato l'ingegnere De Benedetti con il principe Caracciolo, non esiste più. E adesso ci sarà una vendita, o una svendita appunto, l'ultimo atto di una lenta ma molto annunciata distruzione di quello che c'era. La firma di questa opera è di John Elkann. Ha acquistato l'intero pacchetto azionario di Gedi, il vecchio Gruppo Editoriale L'Espresso, appena cinque anni fa. E io sono testimone diretto di questo acquisto perché, e faccio una confidenza a tutti i nostri ascoltatori, io sono entrato nel gruppo Gedi dopo undici anni al Fatto Quotidiano, nell'estate del 2020, e sono stato una delle prime assunzioni di giornalisti della nuova era».

E tu dici: si doveva capire già lì il declino?
«Era un brutto segnale (ride). Quando io sono arrivato all'Espresso, direttore era Marco Damilano. Ricordiamoci che Repubblica è una costola dell'Espresso, è nata dall'Espresso. Scalfari fonda prima l'Espresso e poi Repubblica, che inizialmente non aveva neanche tutto questo successo, ma poi negli anni Ottanta, complice il declino del Corriere della Sera, è esploso. Il gruppo era di Exor, quindi della famiglia Elkann-Agnelli. Quando arrivo mi accolgono con questa frase, con questo mantra potrei dire: dovremo diventare il primo gruppo editoriale italiano, cioè dovremo battere il Corriere della Sera, RCS. Diciamo pure che la missione è fallita. Dopo un paio di anni, anche meno, il gruppo inizia a liberarsi di alcuni piccoli pesi, piccoli giornali locali, le gazzette dell'Emilia Romagna e altri quotidiani con grande storia, da una  barca che stava inclinata. Poi, a un certo punto, toglie la storia stessa della barca, l'etichetta, l'intestazione. Toglie il cippo principale di quella strada del giornalismo che è l'Espresso. Sì, vende l'Espresso – la testata, l'archivio, che era un archivio di grande rilevanza storica, e tutti i giornalisti, compreso me – a un altro editore. E invece che è successo nel frattempo a Gedi? Hanno tolto altri pesi medi, piccoli, tra medi e piccoli, di ogni misura, e adesso si è arrivati agli ultimi pesi rimasti: la Stampa, Repubblica e le radio, M2O, Deejay e Capital».

Senti, ma a chi vende Gedi? Si va dalla padella alla brace in questo caso?
«La premessa: John Elkann e i manager che ha scelto hanno gestito per pochissimo tempo il gruppo e, subito dopo, hanno deciso di fatto di smantellarlo. Adesso c'è una trattativa in esclusiva con il gruppo Antenna, della famiglia Kyriakou, un gruppo che comunque non parte dall'editoria ma che è legato al mestiere più diffuso in Grecia. La famiglia Kyriakou, infatti, è una famiglia di armatori. Poi, negli anni, sono entrati nell'editoria, hanno diversificato come si dice, hanno creato dei gruppi anche finanziari all'estero, hanno legami con Paesi che non hanno, diciamo, il giornalismo e la libertà democratica tra le loro stelle polari, quindi l'Arabia Saudita. Non si capisce perché vogliono comprarsi due testate, più le radio e altre cose minori, di un gruppo che perde soldi in un settore in cui, lo sappiamo tutti, i soldi tendenzialmente si perdono, non si fanno. Quindi, il timore dei giornalisti, dei colleghi di Repubblica e della Stampa, è che questo sia soltanto un passaggio intermedio verso un'ulteriore cessione. A chi, quando, come non si sa. La Stampa ha una storia diversa, molto più legata alla famiglia Agnelli-Elkann, mentre Repubblica è l'ultimo, uno degli ultimi pilastri del giornalismo nel campo del centrosinistra. Ci sono altri quotidiani che fanno opposizione al governo, ma i quotidiani o i gruppi più coesi, al di là delle copie e dei numeri finanziari, che oggi sono nel mercato e hanno meno scossoni sono quelli che sostengono il governo. È vero che il governo si sta interessando molto a questa vendita perché deve, per forza di cose, interessarsene. Ma è anche vero che, questo è il sottotesto di tutta l'operazione, una Repubblica in mani straniere e meno combattiva o critica nei confronti del governo potrebbe anche non dispiacere al governo Meloni».

Ecco, mi hai anticipato la domanda, cioè la posizione del governo, felice della sua abbuffata di Atreju. Alla, dunque, va bene così?
«Mi è difficile dirlo adesso. C'è una fase procedurale. L'acquirente dovrà notificare a Palazzo Chigi, per il regolamento golden power, l'accordo. E poi Palazzo Chigi dovrà decidere se dare il suo benestare oppure bloccare l'operazione. Il sottosegretario all'editoria, Barachini, che è un esponente di Forza Italia, ha convocato i vertici di Gedi, quindi i manager di Elkann. La Russa, il presidente del Senato, si è speso in dichiarazioni a sostegno dei giornalisti, benché sia dall'altra parte della barricata politica, ma è comunque, giustamente, un rappresentante delle istituzioni e quindi ha fatto bene a dire quello che ha detto. La vicenda è in evoluzione. Vedo tra, tra i colleghi un sentimento di mestizia per quello che sta accadendo e, soprattutto, un dispiacere nei confronti dell'ennesimo acquirente, dell'ennesimo editore, che tra l'altro non è un editore, che ha fallito i suoi obiettivi. La famiglia Agnelli-Elkann».

Cambiamo tema. Ad Atreju si è parlato di Olimpiadi? So che tu hai qualcosa da dirmi su questi Giochi oramai imminenti. Milano-Cortina 2026, ci siamo. Passeggiavo in zona stazione, a Lugano, e ho notato il logo di Milano-Cortina 2026 sui treni TILO che collegano il Ticino alla Lombardia. È un invito rivolto a noi ticinesi... Ma vale la pena venire?
«Vorrei dire qualcosa di impopolare. Abbiamo visto anche la neve artificiale portata in Trentino. Abbiamo visto la difficoltà con la quale i lavori vengono conclusi, altri verranno conclusi nei prossimi anni. Io mi chiedo: ma c'è ancora bisogno di fare le Olimpiadi? Non vi sembra un po' anacronistico? Non vi sembra, soprattutto, non più sostenibile dal punto di vista economico, dal punto di vista ambientale, anche dal punto di vista politico e infine, non ultimo, sportivo? Ormai è tutto più semplice, tutto più accorciato, tutto più insistente. Non c'è bisogno del grande evento. Come nel calcio, ci sono grandi eventi ogni giorno, quasi ogni giorno. Ci sono partite di coppa ogni due settimane. Si sono inventati la Coppa del Mondo per club. Lo sci fa i mondiali ogni due anni. E tutti gli altri sport invernali hanno le loro competizioni. Che senso ha, ogni quattro anni, che siano estive o invernali, ancora più difficili quelle invernali per il cambiamento climatico, che senso ha organizzare un evento del genere quando non è più sostenibile? Inventiamoci qualcosa di diverso. È giusto, corretto, tirare a lungo le tradizioni, però poi le cose cambiano e bisogna prenderne atto, con praticità, con coscienza e con uno spirito, quello sì, davvero olimpico. Che senso ha fare una pista da bob a Cortina quando in Italia non lo pratica nessuno il bob e non resterà nulla? Cosa è rimasto delle Olimpiadi di Torino se non dei debiti? Cosa è rimasto alla Grecia delle Olimpiadi? Cosa è rimasto alla Cina delle Olimpiadi? Ci sono stadi costruiti in Qatar e poi smontati: non c'era bisogno di fare i mondiali lì, i d'inverno per giunta. Ma perché abbiamo fatto i mondiali in Qatar? Abbiamo fatto i mondiali in Qatar perché servivano, al Qatar, per  assumere una dimensione globale. È sempre stato così, i grandi eventi sportivi molto spesso sono utilizzati dai regimi non democratici per fare propaganda. E lo sport, spesso, è costretto, proprio perché i regimi non democratici spendono più facilmente dei soldi, a mettersi al servizio di questi signori. E io lo trovo proprio per niente olimpico».

E ti dirò un'altra cosa: a Sochi, nel 2014, ero sullo stesso volo di Fabio Capello. Ci siamo guardati, entrambi intontiti e inebetiti, perché siamo atterrati e c'erano quindici gradi, si stava in maniche di camicia. Eravamo sul mare, abbiamo visto il tramonto sul Mar Nero e ci siamo detti: ma queste non sono Olimpiadi invernali. 
«Precisiamo che noi le Olimpiadi le guarderemo, avremo i nostri atleti preferiti, canteremo l'inno e saremo attaccati avanti al televisore e a tutti i dispositivi elettronici che trasmettono le Olimpiadi. Però, se qualcuno ci desse il potere di decidere di continuare a fare le Olimpiadi in questo modo, io direi di no, tu?».