Don Beretta: ignorato prima, celebrato ora

«Non è niente. Voleva solo spaventarmi». Le ultime parole pronunciate da don Renzo Beretta hanno il suono del perdono incondizionato come quelle di Gesù sulla croce. Le disse alle 15.35 del 20 gennaio 1999, venti anni fa esatti. Era un mercoledì. Le sospirò tra le braccia del giovane vicario richiamato dalle urla di quell’aggressione che avrebbe posto fine all’esistenza terrena di quello straordinario prete di 77 anni. Abdel Hakim Lakhoitri, aveva allora 31 anni ed era scappato dal Marocco. Come tanti altri disperati gravitava nell’area di confine tra Ponte Chiasso e Chiasso e bussava spesso alla porta del parroco per chiedere da mangiare.
Quel giorno voleva anche un po’ di soldi e non ottenendoli estrasse un coltello e aggredì don Renzo che si accasciò urlando di dolore. Don Giovanni, il vicario, chiamò i soccorsi e arrivarono l’ambulanza e carabinieri e polizia. Portarono il parroco all’ospedale dove morì poco dopo. Nel frattempo Abdel era fuggito e, dopo aver gettato lì vicino il coltello insanguinato, salì sul bus per Como. Fu intercettato e arrestato. Indicò dove aveva buttato l’arma e confessò. Al processo il tribunale cittadino lo condannò a 16 anni e 4 mesi, mentre in Appello e in Cassazione gli ridussero la pena e, grazie anche all’indulto, dopo 9 anni è stato scarcerato e rimpatriato in Marocco.
«Non è niente» lo pensarono allora e ne sono convinti anche adesso molti comaschi che guardavano e guardano con insofferenza a don Renzo disapprovando la sua solidarietà per quegli stranieri disperati che si accalcavano alla frontiera così come quelli che tre anni fa bivaccavano nei giardini davanti alla stazione di Como. Indifferenza, freddezza, ostilità. Lo dice esplicitamente oggi la nipote di don Renzo che ricorda come c’era diffidenza anche nel mondo religioso per l’azione di quel parroco di frontiera dalle mani oranti.
«Dico vergogna»
In un commento per la «Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo» don Renzo scrisse: «Si parla di riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana. Sono parole... Premetto: non posso e non intendo sostituirmi ai doveri e obblighi dello Stato nell’affrontare il problema “xtracomunitari”. La soluzione non nelle nostre mani. Ci supera e sembra inarrestabile... Ho interpellato, ho cercato... le risposte? Evasive, perché la legge crea questo stato di cose... e gli interventi sollecitati? Un gioco al rimbalzo. Vergogna. Scrivo per l’esperienza di Ponte Chiasso, ammetto che il comportamento di alcuni extracomunitari e la novità stessa del problema possano creare un certo disagio. Veramente insuperabile? Che fare? Aspettare il fattaccio con intervento duro dello Stato, alla tv e accusare così la nostra gente di insensibilità e di razzismo? Dico vergogna».
Ritorniamo a quegli anni che assomigliano tanto all’oggi. Nel ’98 la Svizzera aveva registrato 42 mila ingressi illegali ed eseguito 120 mila espulsioni, quasi tutte per l’Italia. Alla fine di quell’anno a Ponte Chiasso arrivavano 100 extracomunitari al giorno. Nessuno si preoccupava per loro. O meglio ci pensava don Renzo che sulla porta di alcuni locali della parrocchia aveva affisso la targhetta «Ufficio assistenza stranieri». Otto posti letto. In breve cinquanta. E poi la fiumana di gente. Allora aprì anche la chiesa e ne sistemò alcuni nello spazio del confessionale. Giovani e donne della parrocchia aiutavano don Renzo fornendo cibo e vestiti e offrendosi di assistere quei disperati. Un significativo sostegno venne anche da mamme e personaggi ticinesi.
Istituzioni latitanti
Lo Stato e le istituzioni e le gerarchie ecclesiastiche non lo aiutarono. Lo piansero alla morte. «Una delle pagine più dolorose dell’Episcopato, che tutti hanno dimenticato» ha detto tempo fa l’allora vicario. Il centro per stranieri aperto da don Renzo fu subito chiuso e non è più stato riaperto. La Curia sull’impulso della sua opera ha dato nuova energia alla Caritas e ai centri diocesani. E il «Settimanale della Diocesi» gli ha dedicato delle belle pubblicazioni. Alcuni incontri, nei quali parlerà tra gli altri don Giusto della Valle che a Rebbio ha rinnovato l’afflato umanitario di don Renzo, si chiuderanno domenica 20 con la messa celebrata dal vescovo Cantoni. La città invece lo ha dimenticato. A ricordarlo solo la targa sul sagrato di Ponte Chiasso, non una strada, non una scuola. Anzi, nonostante le proteste e le richieste della Caritas e di tante associazioni di volontariato, recentemente Como ha chiuso il centro d’accoglienza per immigrati allestito tre anni fa per affrontare l’ultima emergenza.
«Una società egoista»
«Era ed è disprezzato» dice la nipote. «La figura di don Renzo Beretta – commenta il giornalista Marco Guggiari – è stata piuttosto trascurata nell’arco di questi vent’anni. Oltre la ricorrenza della sua tragica morte niente più. Ed è un vero peccato perché nell’epoca in cui si fa fatica a trovare esempi di vita, don Renzo, oltre che un martire moderno, è stato un testimone di valori, una figura da studiare, che può dire molto ai cristiani e anche ai non credenti». Sulla stessa lunghezza d’onda la giornalista Maria Castelli: «È stato completamente dimenticato. Devo dire che don Renzo è anche il mio rimorso. Ne abbiamo parlato e scritto un po’ dopo la morte, ma prima non sapevamo neppure cose stesse facendo. Sui giornali ci occupavano dei Tir, dei problemi della dogana e di lui niente, eppure era un prete straordinario». Conferma anche don Angelo che da due anni è parroco a Ponte Chiasso: «È una società egoista e non può fare un monumento a un altruista. Oggi conta solo l’economia e don Renzo affrontava le distorsioni delle leggi economiche. Qui a Ponte Chiasso è molto sentito, c’è il suo forte ricordo. Ma siamo un quartiere di anziani. Lui era avanti, dava risposte profetiche. Per lui vale quello che dice il Vangelo: nessuno è profeta in patria. Speriamo che con il tempo le cose cambino e possa essere valorizzato il suo dono. Per ora in questa società egoista sembra di capire che di don Renzo meno se ne parla e meglio è».

IL PROFILO
LA CHIAMATA
Nacque il 12 giugno 1922 a Camerlata da un padre non propriamente credente e da una madre devota. Quando maturò la «chiamata» lo disse al padre che nonostante la sua lontananza dalla Chiesa accolse la sua richiesta con la frase lasciapassare «Se è quello che vuoi allora fallo perché è giusto». Fu consacrato sacerdote il 27 giugno 1948 a Como.
IL PRIMO INCARICO
Il primo incarico come vicario a Livigno (1948-1953), poi ancora vicario a Mandello del Lario fino al 1956, poi in Cattedrale a Como fino al 1963, quindi parroco a Solzago (comune di Tavernerio, in provincia di Como) fino al 1984.
ALLA FRONTIERA
Quando aveva 62 anni, e da venti guidava la comunità parrocchiale di Solzago, arrivò la nomina a Ponte Chiasso, periferia di Como, alla frontiera con la Svizzera. Era il 1984. La parrocchia era stata costituita staccandola da quella di Monte Olimpino. La chiesa, voluta e avviata da don Carlo Ghielmetti, era un edificio ancora da completare.
L’ASSISTENZA AGLI STRANIERI
Don Renzo si rimboccò le maniche e con le sue “mani oranti” edificò anche un senso di comunità. C’erano tanti disperati che cercavano di passare il confine. Migranti. Extracomunitari. Mise una targhetta sulla porta di un locale della parrocchia: “Ufficio assistenza stranieri”. Ne accolse migliaia, sistemandoli anche dentro la chiesa.
L’OMICIDIO
Il 20 gennaio 1999 un marocchino tra i tanti stranieri che ospitava gli chiese dei soldi e lo accoltellò. Morì poco dopo. I funerali solenni in Duomo a Como. Poi, il silenzio. A Don Renzo è dedicato soltanto il sagrato della chiesa dove è morto.

L’INTERVISTA: «MIO ZIO? UNA PERSONA SPECIALE, MA ERA ED È ANCORA DISPREZZATO»
Parla la nipote Ombretta Annoni
«Non c’erano e non ci sono solo indifferenza, distacco, disinteresse. No. Mio zio era ed è disprezzato»”. Non usa giri di parole Ombretta Annoni per dire come don Renzo Beretta era considerato prima di venire ucciso e anche dopo. Ripensa alla figura di quell’uomo così vicino nella sua famiglia e così lontano nella sua grandezza e nel suo destino. Conserva ricordi, foto, testi di un prete decisivo per le vite di tanti, compresa la sua.
Quale memoria ha di suo zio don Renzo?
«Era una persona speciale. Una personalità forte e delicata allo stesso tempo, sempre rivolto agli altri. Era diretto. Chiedeva sempre a se stesso e agli altri di superarsi nell’occuparsi delle persone con cui si entrava in relazione».
Come era don Renzo per la vostra famiglia?
«Era uno zio prete che si preoccupava di noi e di tutti. Lui aveva sposato mio padre e mia madre e dopo ha voluto concelebrare anche il mio matrimonio. Era il 1998, un anno prima della tragedia».
C’è un errore di prospettiva che si fa su don Renzo?
«Penso di sì. L’apertura del centro per gli stranieri nella parrocchia di Ponte Chiasso lo ha presentato come un prete attento quasi esclusivamente alle povertà materiali, al soccorso degli ultimi nella scala sociale. Don Renzo, invece, era convinto che per aiutare veramente le persone occorresse prendersene cura al cento per cento e agire per la loro formazione, la loro cultura e la loro educazione. Per dirla con una espressione di un film, non pensava che ai bisognosi si dovesse dare solo il pane, ma anche le rose».
Da cosa trae questo convincimento?
«Dal fatto che si interessava molto all’istruzione delle persone, dei bambini e degli adulti. Dava loro l’annuncio del Vangelo e voleva che si emancipassero anche culturalmente. A mio padre Mario, che faceva parte della Cisl, un giorno chiese di poter incontrare i sindacalisti che erano stati allievi di don Milani. Li portò a parlare ai ragazzi della parrocchia di Solzago. Dopo disse in dialetto a mio padre “Ho capito che non si può ripetere quella esperienza. Devo pensare a qualcosa d’altro”. Era così, il suo unico riferimento era il Vangelo e traeva gli insegnamenti per rispondere ai bisogni delle persone, lo proponeva in modo semplice e comprensibile a tutti».
Perché dice che non era capito?
«Lui a Ponte Chiasso aveva visto il bisogno dei disperati che cercavano di passare il confine e che venivano respinti. Una umanità povera e sofferente. La maggioranza delle persone e delle istituzioni, gran parte della società civile comasca e anche di quella religiosa, compresa parte della Curia, pensava che non era affare loro, che non era il caso di occuparsene. Per questo l’azione di mio zio non fu accolta con simpatia, ma con distacco, freddezza e talvolta con ostilità”.
Anche da parte del mondo religioso?
«Sì, certo. Non vedevano di buon occhio che lui aprisse le porte della parrocchia agli stranieri. Quando la situazione stava diventando ingestibile lui andò in curia a chiedere cosa fare e di avere qualche aiuto. Gli risposero che era meglio che lasciasse perdere».
Anche suo padre e il vicario di don Renzo lo misero in guardia, no?
«Sì, certo. Mio padre raccontò che mio zio sapeva e si rendeva conto delle gravi difficoltà che aveva davanti ma che per lui non contavano. Voleva dare una ospitalità vera. Due giorni prima che morisse andò a trovarlo e scambiarono qualche parola. Mio padre gli disse che era sempre più pericoloso andare avanti così. E lui gli rispose “pericoloso, pericoloso... qualche giorno fa ho sentito urlare qua fuori dalla chiesa: era una immigrata stesa per terra che partoriva” Ecco, questo era don Renzo.
Lo sente ancora vicino?
«Sì, mi diceva sempre di fare qualcosa per gli altri, di educarli e aiutarli a migliorarsi. Sono diventata pedagogista. Anche nel mio lavoro c’è la sua impronta».
Perché secondo lei a Como non gli hanno dedicato neanche una strada o una scuola?
«Perché, salvo per alcune persone e associazioni di volontariato, don Renzo non solo non era apprezzato, ma c’era per lui disprezzo».