L’intervista

«Donna, vita, libertà: ecco l’urlo che ha fatto insorgere l’Iran»

Nato nel 1971 a Sanaa, nel Kurdistan orientale, Fariborz Kamkari ha iniziato l’attività di regista, sceneggiatore e scrittore in Iran – Nel 2022 ha pubblicato il romanzo «Ritorno in Iran» e firmato il documentario «Kurdbûn - Essere Curdo»
© KEYSTONE (Photo by OZAN KOSE/AFP via Getty Images)
Dario Campione
19.11.2022 06:00

Nato nel 1971 a Sanaa, nel Kurdistan orientale, Fariborz Kamkari ha iniziato l’attività di regista, sceneggiatore e scrittore in Iran, dove si è laureato in Regia e Letteratura drammatica nel 2002. Tra i suoi film più noti ci sono I Fiori di Kirkuk (2010) e Pitza e datteri (2015). È stato in concorso a Venezia e Roma e ha vinto nel 2006 il premio come miglior regista al Festival Indipendente di Bruxelles per Il capitolo proibito. Nel 2022 ha pubblicato il romanzo Ritorno in Iran (La Nave di Teseo) e firmato il documentario Kurdbûn - Essere Curdo.

Che cosa sta succedendo nel suo Paese?

«In Iran è in corso una rivoluzione, l’evento più grande degli ultimi 43 anni. Non una rivolta, badate, ma una rivoluzione. Sotto il segno di uno slogan bellissimo: “Donna, Vita, Libertà”. Sinora il regime era riuscito a disinnescare ogni malcontento, tenendo separate tra loro le varie proteste: quelle etniche, quelle religiose, quelle sociali. Ma da quando sono iniziate le manifestazioni seguite all’uccisione in carcere di Mahsa Amini, i vari gruppi si sono uniti. Bruciando un simbolo, il velo, dicono no all’intero sistema. Non è più una rivendicazione economica, adesso tutti vogliono cambiare il Paese».

Perché, secondo lei, si è arrivati a questo punto?

«Per molti motivi. Innanzitutto, perché manca totalmente la libertà. In Iran, non bisogna dimenticarlo, per l’omosessualità c’è la pena di morte. Ma, forse pochi lo sanno, anche possedere un cane è illegale: se scoperto, il proprietario viene multato e l’animale ucciso, eliminato».

Quanto pesa la crisi economica?

«Moltissimo. L’inflazione è al 42%, il potere d’acquisto nullo: oggi per un dollaro servono 400 mila riyal, nel 1979 ne bastavano 50. Il lavoro manca del tutto: secondo le statistiche ufficiali, la disoccupazione maschile è al 28%, quella femminile al 64%. Ogni anno 2,3 milioni di giovani si laureano, un milione di loro sono donne che non trovano lavoro, anche perché il sistema  tenta metodicamente e scientificamente di escluderle dalla società. E poi c’è la corruzione. Enorme, dilagante. Pochi gruppi collegati ai pasdaran e ai capi religiosi hanno in mano tutta l’economia. Senza pagare non si può fare alcuna attività commerciale o imprenditoriale».

Lei ha parlato di cinque fasi della nuova rivoluzione iraniana.

«Sì, è vero. Credo che questa rivoluzione abbia sin qui vissuto momenti diversi, un vero e proprio crescendo. La prima fase è stata in Kurdistan, la regione dalla quale io provengo. Il Kurdistan è abitato da una minoranza perseguitata e anche per questo è sempre stato il motore del cambiamento. Lì si sono sviluppate le prime proteste. La seconda fase è stata caratterizzata dal coinvolgimento delle grandi città: la gente ha cominciato a scendere in strada anche a Teheran, dove oggi vivono 17 milioni di persone. Nella terza fase sono entrati in campo gli studenti: negli ultimi 10 anni, il regime era riuscito a evitare le ribellioni studentesche, stavolta non ce l’ha fatta. La quarta fase si è innescata quando nella rivolta sono state coinvolte anche città sante quali Qom o Mashhad: non era mai accaduto prima. L’ultima fase, tre giorni fa, ha riguardato il bazar, tradizionalmente vicino al Governo: è entrato in sciopero. Lo stesso è successo nelle industrie petrolchimiche e nelle raffinerie. Questo fatto metterà in ginocchio il regime».

Pensa che ci sarà anche una sesta fase?

«Lo spero. La sesta fase sarebbe probabilmente quella finale. Intanto, ieri (giovedì, ndr) a Khomeyn, la città natale della guida spirituale della rivoluzione islamica, è stato dato fuoco alla casa di Ruhollah Khomeini, da 30 anni trasformata in un museo. È un atto estremamente significativo, mostra che il regime non riesce a frenare la protesta, nonostante tenti in tutti i modi di nasconderla».

Si riferisce alla censura dei mezzi di comunicazione?

«Sì, anche. Da tre mesi Internet è stato disattivato, ma nelle grandi città i pasdaran non sono riusciti a bloccare completamente la Rete, e così le informazioni filtrano ugualmente. Io stesso chiamo alcuni amici via Internet a Teheran e, attraverso loro, mi metto in collegamento con i miei genitori in Kurdistan. Inventiamo ogni genere di soluzione per fare in modo che la gente sappia. Gli ayatollah vogliono evitare in ogni modo di fare uscire le notizie, sperano di disinnescare la rivoluzione militarmente e brutalmente, nel silenzio dell’opinione pubblica internazionale. Due settimane fa, il Parlamento ha approvato una legge che autorizza la pena di morte contro i manifestanti. E ci sono 21 mila persone arrestate per aver manifestato in questi mesi».

Da quanto tempo non torna a casa, in Kurdistan?

«Da dieci anni, ormai».

Che cosa si aspetta che facciano i Paesi occidentali?

«Mi aspetto che non sostengano più il regime in alcun modo, che non gli vendano ad esempio nuove armi, o che non comprino petrolio. I soldi che il Governo incassa vanno tutti alle forze armate, che oggi sono pagate in dollari dato che il riyal vale nulla. Mi aspetto inoltre che si rompa sempre di più il silenzio attorno a questa rivoluzione: la gente in Iran deve sapere che la sua voce varca i confini, deve poter contare sul fatto che il regime subirà gravi ripercussioni se applicherà la pena di morte. Gli ayatollah vogliono poter agire senza conseguenze: ecco, mi aspetto davvero che questo non accada».

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