Dopo tanto buio, un po’ di luce

Dopo due anni di buio, la luce del Natale è tornata a risplendere nella piazza della mangiatoia, la più importante di Betlemme, dinanzi alla Basilica della Natività. L’albero di Natale, ornato di palline rosse e dorate, è ritornato a essere acceso dopo che per due anni, a causa della guerra a Gaza, le celebrazioni civili natalizie sono state cancellate, nella città dove è nato Gesù, in solidarietà con i palestinesi della Striscia.
La tregua raggiunta con il piano di pace Trump, sottoscritto due mesi fa, ha dato un po’ di speranza: da qui la decisione del sindaco di Betlemme di riprendere i festeggiamenti interrotti dopo l’inizio del conflitto a seguito del massacro del 7 ottobre da parte di Hamas. «Alzati e risplendi» è lo slogan usato.
Una decisione non semplice. Dal momento che a Gaza si continua a soffrire, che la pace è ancora appesa a un filo e che la situazione non si è ancora normalizzata, in molti hanno criticato la decisione di Maher Canawati, sindaco dell’unica città palestinese dove questo ruolo, per legge, è riservato a un cristiano. Ma è la stessa situazione difficile di Betlemme, la città del Natale che da due anni è senza Natale, ad aver spinto il sindaco a riorganizzare i festeggiamenti civili.
«Nonostante anni di pandemia, guerra e difficoltà – ha detto il sindaco, che ha anche ricevuto un messaggio di Papa Leone XIV – accendiamo questo albero per dichiarare che la luce è più forte dell’oscurità. Betlemme rimane aperta. La nostra gente continua a soffrire dietro i muri di separazione, sotto occupazione, in esilio e sfollamento. E a Gaza, i nostri figli nascono sotto le macerie. Eppure la voce dell’angelo continua a sussurrare: non abbiate paura».
E così l’albero è stato acceso in un tripudio di suoni, luci, laser e palloncini, hanno suonato sul palco gli scout e altri artisti, sono tornate le bancarelle come diversi turisti, principalmente locali. Ancora pochi, troppo pochi, gli stranieri.
Il turismo, rappresentato soprattutto dai pellegrinaggi religiosi, è da tempo il più importante motore economico per Betlemme. Secondo il governo locale, circa l’80% dei residenti della città a maggioranza musulmana vive di questo. Guadagni che portano giovamento a tutta la comunità palestinese dell’area, perchè la città del Natale occupa, intempi normali, operai, camerieri e altre professionalità da tutte le città dell’area. «Quando abbiamo 10.000 visitatori e pellegrini che dormono a Betlemme, significa che il macellaio è al lavoro, il supermercato è al lavoro e tutti lavorano. Si crea un effetto a catena».
Non solo la guerra ma anche le operazioni israeliane nei Territori palestinesi rendono difficile il lavoro perché – con l’aumento dei checkpoint, l’istallazione di quelli volanti, i controlli e i raid – impediscono di raggiungere facilmente Betlemme da qualsiasi altra città. Per compiere una trentina di chilometri, ci si impiegano anche sei ore. Nei giorni scorsi, si sono registrate diverse operazioni dell’esercito proprio nella città del Natale.
Il tasso di disoccupazione a Betlemme è balzato dal 14% al 65%, secondo i dati diffusi dal sindaco. La povertà è aumentata vertiginosamente e circa 4.000 persone sono partite in cerca di lavoro. «La decisione che abbiamo preso è stata quella di riaccendere lo spirito del Natale e di riaccendere la speranza» ha detto Canawati. «Penso che questo trasmetta un grande messaggio al mondo intero: noi palestinesi amiamo la vita e attendiamo con ansia una soluzione pacifica».
«Habibi, sei il benvenuto, ma mio fratello Shadi non c’è, è in America» mi dice Amer, che gestisce da decenni con la sua famiglia un negozio di souvenir religiosi. Per poter sfamare la famiglia, Shadi da diversi anni trascorre negli Stati Uniti le feste di Natale, si trasferisce verso ottobre, per vendere gli oggetti dell’artigianato religioso made in Betlemme. «Mi sa che fra poco ci trasferiamo tutti, qui vivere è diventato impossibile per noi».
La città di Betlemme è in ginocchio, non solo per la mancanza di turisti. Come le altre della Cisgiordania, registra la mancanza di stipendi per i dipendenti pubblici, visto che l’Autorità nazionale palestinese non li paga, a seguito del blocco israeliano delle tasse che Gerusalemme raccoglie e che dovrebbe consegnare a Ramallah ma che non fa perché il governo palestinese, nonostante tutte le promesse, ha continuato a pagare stipendi anche ai familiari e ai prigionieri nelle carceri israeliane condannati per terrorismo. E così molti emigrano.
«Io non voglio lasciare – mi dice Nizar, guida turistica – la mia famiglia vive qui da sempre, ho tutte le mie radici. Ma così non possiamo andare avanti. Oggi, vedendo tutta questa gente, per un attimo mi sono ricordato dei bei tempi, di quando, ricordi? Per entrare nella grotta della Natività bisognava aspettare più di un’ora per la fila di turisti. Ora guarda: non c’è nessuno. È desolante. Il Bambino nascerà di nuovo da solo».
Superando la porta dell’umiltà, il piccolo varco che introduce alla Basilica della Natività, lo spettacolo è desolante: le cinque navate sono vuote. Nella grotta ci sono alcuni pellegrini. Si sente parlare russo, filippino e spagnolo. Qualcuno è inginocchiato sulla stella argentata con quattordici punte che indica il luogo dove è nato Gesù, altri dinanzi alla mangiatoia dove il Bambino divino è stato posto. Ma sono davvero pochi.
Nella attigua chiesa francescana di Santa Caterina fervono i preparativi per la Messa di Natale che, nonostante Covid e guerra, non è mai mancata. I biglietti, gratuiti, per assistere alla messa, alla quale partecipa, per una parte, anche il presidente palestinese Abu Mazen, sono esauriti, segnale di speranza. Sia il patriarca di Gerusalemme, Pierbattista Pizzaballa che il Custode di Terra Santa Francesco Ielpo hanno invitato i pellegrini a tornare a Betlemme, anche per riportare la speranza ai tanti lavoratori disoccupati, per far tornare a Betlemme il Natale che manca da troppo tempo.