Dove finisce il ghiaccio, iniziano le rivalità: il caso Svalbard

A metà strada tra la Groenlandia e il Polo Nord, a più di mille chilometri dalla Norvegia continentale, le Svalbard formano un arcipelago remoto abitato da poco più di duemila persone. Per decenni sono state conosciute soprattutto come meta di ricerca scientifica e di turismo polare; oggi, invece, ciò che accade su — o meglio, per — queste isole riflette alcune delle principali tensioni globali: la rivalità crescente tra Russia e NATO, l’interesse di Cina e Stati Uniti per le nuove rotte marittime aperte dallo scioglimento dei ghiacci e la competizione per l’accesso alle risorse artiche.
Il centenario della sovranità norvegese, celebrato ad agosto con la presenza del primo ministro Jonas Store, del principe ereditario e di delegazioni internazionali, ha trasformato Longyearbyen, la cittadina principale dell’arcipelago, in un palcoscenico politico. Non è stato un semplice evento commemorativo, Oslo ha voluto ribadire che le Svalbard appartengono alla Norvegia e che resteranno al centro della sua strategia nell’Artico, un’area sempre più contesa dalle grandi potenze.
All’inizio del Novecento le Svalbard erano una sorta di «terra di nessuno» senza un’autorità statale riconosciuta. La Prima Guerra Mondiale e il riassetto geopolitico che ne seguì resero urgente definire un quadro giuridico stabile. Nacque così il Trattato delle Svalbard, firmato a Parigi nel 1920 ed entrato in vigore nel 1925. L’accordo riconobbe la sovranità della Norvegia, ma pose condizioni precise: divieto di basi militari e fortificazioni e diritto per tutti i firmatari di accedere a risorse e attività economiche, senza discriminazioni.
Proprio queste clausole, pensate per preservare la neutralità e prevenire conflitti, sono diventate oggi terreno di interpretazioni divergenti. Oslo sostiene che la presenza di infrastrutture civili di sorveglianza e la cooperazione con la NATO siano legittime; Mosca accusa la Norvegia di travalicare lo spirito del trattato. In questa zona grigia si inseriscono tensioni più ampie, che trasformano un documento nato per garantire stabilità in un campo di battaglia diplomatico e politico.
Le ambiguità del Trattato delle Svalbard sono diventate ancora più delicate dopo il 2022, con l’invasione russa dell’Ucraina e l’allargamento della NATO a Svezia e Finlandia. Da allora l’arcipelago non è più percepito come un margine remoto, come ha osservato l’Economist nell’agosto 2025, le Svalbard sono ormai al centro delle attenzioni di governi e servizi di intelligence.
A renderle strategiche è soprattutto la loro collocazione geografica, a metà strada tra Groenlandia, Norvegia continentale e Russia. Questa posizione spiega perché Oslo sia sempre più determinata a riaffermare la propria sovranità.
La Russia considera vitale il porto di Murmansk, sulla penisola di Kola, non lontano dal confine con la Norvegia. La vicinanza di Murmansk alle Svalbard rende l’arcipelago particolarmente sensibile per Mosca, che teme una presenza occidentale troppo marcata a ridosso della sua base strategica. Per questo il Cremlino sta rafforzando nuove infrastrutture lungo la Rotta del Mare del Nord, il corridoio marittimo che collega Europa e Asia e che potrebbe diventare fondamentale per il trasporto di petrolio e gas. In questo scenario, come nota l’Economist, Russia e NATO mantengono le reti di basi e infrastrutture più estese della regione, trasformando l’Artico in un mosaico di presenze contrapposte.
Negli ultimi anni, episodi concreti hanno mostrato quanto fragile sia l’equilibrio. Nel 2022 un cavo sottomarino che collegava le Svalbard alla Norvegia è stato tranciato dopo il passaggio sospetto di pescherecci russi. Più di recente, nel luglio 2025, alcuni voli di linea diretti a Longyearbyen hanno segnalato gravi interferenze al GPS durante l’avvicinamento. Un segnale inquietante in un’area dove l’aviazione rappresenta l’unico collegamento stabile con il continente. Le autorità norvegesi hanno rafforzato i controlli e avviato consultazioni con gli alleati NATO, temendo che si tratti di nuove forme di pressione ibrida.
Queste dinamiche geopolitiche non restano astratte per chi vive alle Svalbard. Secondo il portale indipendente Cryopolitics, a Longyearbyen i residenti osservano con crescente preoccupazione il moltiplicarsi di episodi sospetti, voli disturbati da interferenze, collegamenti fragili, infrastrutture da rinforzare. Questo a causa del permafrost che cede, cioè quello strato di terreno permanentemente ghiacciato su cui sono edificati case e infrastrutture. Quando si scioglie, il suolo diventa instabile e mette a rischio le fondamenta, costringendo a rinforzi o ricostruzioni. Per molti la sicurezza non è solo una questione internazionale, ma una realtà che riguarda la vita di tutti i giorni, l’arrivo dei rifornimenti, la possibilità di viaggiare, la stabilità delle comunicazioni.
Ad aggiungere complessità è dunque anche il riscaldamento climatico, in soli quarant’anni la calotta artica ha perso gran parte della sua estensione e la velocità con cui continuerà a ritirarsi sarà decisiva per stabilire se, e in quali tempi, nuove rotte marittime potranno aprirsi alla navigazione. Il cambiamento non riguarda solo il mare, la stessa Longyearbyen deve fare i conti con il progressivo scioglimento del permafrost, che mette sotto pressione case e infrastrutture e obbliga a costruire nuovi edifici più resistenti. Questo scenario renderebbe l’Artico non soltanto un corridoio per i traffici commerciali, ma anche un teatro di crescente competizione militare.
