Misure

Il price cap e come aggirarlo

Sono entrati in vigore l’embargo europeo alle importazioni e il tetto al prezzo del petrolio russo, fissato a 60 dollari al barile – In questa situazione, torna a galla il tema delle flotte ombra, nate proprio allo scopo di aggirare le sanzioni – Il precedente dell’Iran come modello
REUTERS/Tatiana Meel
Gian Luigi Trucco
05.12.2022 21:45

Venerdi scorso, dopo lunghe trattative e difficili compromessi, i Paesi dell’Unione europea, del G7 e l’Australia si sono finalmente accordati per un tetto di 60 dollari al barile al prezzo del petrolio russo trasportato via mare. Un livello ritenuto troppo «generoso» da Ucraina, Polonia e Paesi Baltici, e troppo basso per le nazioni dai forti interessi marittimi, come Grecia, Malta e Cipro. I portavoce del Cremlino hanno affermato di non accettare il limite, che costituisce un pericoloso precedente al libero funzionamento del mercato e potrebbe prestarsi in futuro ad altre ritorsioni di tipo politico. Le sanzioni colpiscono l’acquisto, le attività di trasporto, quelle assicurative e finanziarie collegate, svolte finora in ampia misura da società occidentali. Ed è il campo dello shipping e delle assicurazioni connesse ad essere di attualità, mentre le compagnie russe operano per ottenere i riconoscimenti internazionali e nuove giurisdizioni si attivano.

Le navi fantasma

Questi eventi, cui peraltro la Russia si stava preparando da tempo, riportano sotto i riflettori il tema delle flotte ombra, nate proprio allo scopo di aggirare le sanzioni. Non si tratta certamente di una novità. «Navi fantasma» sono state protagoniste di fatti di pirateria che hanno interessato il Golfo di Aden, il Corno d’Africa e il Bacino Somalo, pirateria oggi trasferitasi nel Golfo di Guinea e presente da sempre nello Stretto di Malacca, oltre che nelle attività di contrabbando fra le sponde africane e arabe del Mar Rosso, ma questa è un’altra storia.

Queste flotte fantasma iniziarono a operare in occasione delle sanzioni imposte all’Iran nel 2012, quindi all’Iraq e al Venezuela. L’esperienza acquisita da Teheran, e affinata nel tempo, si rivela preziosa nel contesto della crisi russo-ucraina. Un forte sviluppo di queste attività «ombra», come indicano gli operatori del settore marittimo, si è avuto in particolare negli ultimi tre anni.

Società di shipping secondarie e poco note, ad esempio cinesi o degli Emirati, acquistano petroliere di seconda mano, spesso vecchie e vicine al limite della loro vita tecnica, intorno ai 20 anni, magari già destinate alla demolizione, pagandole prezzi nettamente superiori a quelli di mercato, anche del 40%. Una vecchia petroliera greca pressoché in disarmo è stata recentemente venduta per 32 milioni di dollari, mentre lo scorso anno ne valeva a malapena 17. Oggi sono richieste anche quelle «ice-class», in grado di navigare nei mari ghiacciati del Baltico, in virtù delle caratteristiche dei loro scafi.

Le tecniche operative adottate dalle navi fantasma (che attualmente sarebbero quasi 200, attive fra «giurisdizioni amiche»), sono diverse: cambiano spesso nome, bandiera e proprietario, sono registrate in giurisdizioni «opache», disattivano i GNSS-Global Navigation Satellite System e gli AIS-Automatic Identification System, facendo scomparire l’imbarcazione attraverso il transponder e «going dark», come si dice in gergo. Anzi, alterando accuratamente l’apparato si può fare di meglio, facendo apparire la nave in un luogo diverso rispetto a dove si trova realmente. È pratica molto diffusa il trasferimento del carico in alto mare, il cosiddetto SIS-Ship-to-Ship transfer, di solito con il transponder disattivato. Sovente si cancella il nome della nave sullo scafo per evitare il controllo satellitare, si falsificano i documenti relativi alla nave stessa e al carico, al suo destinatario finale, si indicano finti porti di destinazione, si adottano da parte degli armatori strutture proprietarie complesse e talvolta impenetrabili.

I porti

Vi sono isole del Pacifico, da Samoa a Nauru, e dei Caraibi, oppure le Seychelles, divenute importanti porti di registrazione che non hanno registri internazionali e si incontrano sedi di società armatoriali con indirizzi di Dubai, Singapore, Mumbai o di Beirut abbastanza improbabili. Fra gli altri porti di registrazione più usati da queste navi fantasma figurano Guyana, le Comore, Tanzania, Zanzibar, Gibuti, le Isole Cook, Togo, Sierra Leone, Gabon. Diffuso è poi l’uso di mescolare il petrolio «incriminato» con altro simile per mascherarne l’origine.

Molte di queste navi non sono neppure assicurate, evitano i porti principali ove i controlli sono più frequenti e accurati. Ovviamente le navi di queste «flotte fantasma» sono meno efficienti, più lente, non fosse altro vista l’anzianità dei loro apparati motore, e in caso di mancanza di coperture assicurative devono prestare particolare attenzione non soltanto ai controlli, ma anche durante le operazioni in chockepoints pericolosi, come il Canale di Suez, il Bosforo, lo Stretto di Hormuz, Bab ed-Mandeb e altri, oltre che nei porti e nei terminali petroliferi molto trafficati.

La domanda di petroliere, sia regolari che «dark» sostiene comunque il mercato dei prezzi delle navi stesse e dei noli relativi, soprattutto sulle rotte dei principali acquirenti del petrolio russo, Cina, India, Indonesia e altri Paesi asiatici, nonché Emirati e Turchia. Non è poi escluso che Paesi europei aderenti alle sanzioni finiscano con l’acquistare petrolio russo «rebranded» da Paesi terzi, inclusi quelli asiatici. Naturalmente in questo caso, a prescindere dal prezzo, il costo del nolo inciderebbe in maniera significativa.

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