Stati Uniti

Rallenta la corsa dei prezzi, ma la Fed resterà vigile a lungo

A luglio il rincaro su base annua è salito al 3,2% dal 3% di giugno - L’indicatore dell’inflazione di fondo segnala un’evoluzione favorevole e in linea con l’obiettivo della banca centrale
©John Gress
Jacopo Rauseo
11.08.2023 06:00

Si è alleggerita a luglio la pressione inflazionistica negli Stati Uniti. L’indice dei prezzi al consumo è salito del 3,2% rispetto al 3% di giugno. Un dato migliore delle attese. Sarà necessario ulteriore tempo per raggiungere l’obiettivo del 2% stabilito dalla Federal Reserve.

L’inflazione di fondo su base annua - un indicatore osservato dagli esperti che considera l’aumento dei prezzi dei beni al netto di quelli più volatili (energia e cibo) - è scesa leggermente al 4,7% dal 4,8% di giugno. Su base mensile, però, l’inflazione di fondo è aumentata per il secondo mese consecutivo di 0,2 punti percentuali, il livello più basso da quasi due anni. I mercati finanziari hanno accolto positivamente questi dati anche perché alimentano le aspettative per una politica monetaria meno aggressiva da parte della Fed.

«I dati confermano le attese», sostiene Riccardo Trezzi, CEO della società di consulenza Underlying Inflation, già economista e consulente del board della Federal Reserve a Washington. Per frenare la corsa dei prezzi iniziata a metà 2021, la banca centrale americana, come altri istituti di emissione (BCE e BNS), ha eseguito un’aggressiva stretta monetaria portando il tasso di sconto sul dollaro dallo 0% di inizio 2022 fino al 5,25% di oggi, un massimo che non si vedeva da più di vent’anni. «La politica ha dato il mandato della stabilità dei prezzi alla banca centrale. Questa importante stretta monetaria si è resa necessaria per arginare le pressioni inflazionistiche, anche perché la politica fiscale non è stata cooperativa, tanto che il deficit americano ruota attorno all’8% l’anno rispetto al PIL. Con una politica di bilancio più severa, probabilmente i tassi d’interesse non sarebbero elevati come gli odierni», nota l’economista.

Stabilità dei prezzi e finanziaria

All’inizio dell’anno la crisi delle banche californiane aveva sollevato alcune preoccupazioni sull’impatto dell’aumento del costo del denaro sulla stabilità finanziaria. Quando gli interessi salgono, il valore di mercato dei titoli finanziari a reddito fisso, come le obbligazioni, diminuisce «nascondendo» perdite non realizzate nei bilanci dei detentori, come le banche. Gli istituti sono a conoscenza di questo rischio - noto come «il rischio del tasso d’interesse» - e seguendo modelli matematici valutano l’impatto degli aumenti sul valore degli attivi che detengono.

Secondo Trezzi la mini crisi bancaria di inizio anno «è stata una crisi delle banche regionali USA e non sistemica». «Le politiche macroprudenziali adottate a seguito della crisi finanziaria del 2008 hanno portato a requisiti maggiori di capitale e a bilanci più robusti per le maggiori banche, tanto che hanno retto bene all’aggressiva campagna di stretta monetaria». L’esperto aggiunge che le banche centrali «non possono lasciar correre l’inflazione, poiché l’aumento incontrollato dei prezzi è anch’esso un problema per la stabilità macroeconomica e finanziaria».

Il contesto dei prossimi mesi

La Fed guarda con attenzione al forte mercato del lavoro e in particolare ai salari, che attualmente crescono a un ritmo di quasi il 5% su base annua. «I salari recuperano il terreno perso, ma non sono ancora compatibili con il target al 2% d’inflazione fatto proprio anche dalla Fed. Una crescita dei salari più moderata - diciamo al 3% - sarebbe più appropriata con l’obiettivo della banca centrale», sostiene Trezzi.

La disoccupazione, comunque, resta bassa al 3,5%, ma la crescita dei posti di lavoro è rallentata suggerendo un riallineamento tra la domanda e l’offerta di lavoro.

«Aumenti dei tassi marginali sono possibili, anche se l’andamento dei titoli a lunga scadenza della curva dei rendimenti segnala piuttosto che il mercato vede tassi alti per un periodo prolungato», rimarca l’economista. Per ora la traiettoria dei dati sembra favorevole alla Fed, seppure sarà necessario diverso tempo e probabili nuovi aumenti, come sostenuto da alcuni membri del Federal Open Market Committee (il comitato della banca centrale che decide il tasso d’interesse, ndr), prima che l’inflazione annuale si avvicini all’obiettivo del 2%. Su questo target alcuni economisti propongono una revisione adottando un obiettivo più alto (3%, per esempio). Secondo Trezzi «ciò non avverrà, almeno non prima di aver raggiunto il 2%». «Una banca centrale dev’essere credibile e abbandonare il target adesso vorrebbe dire perdere la fiducia dei mercati. Un aggiustamento è comunque possibile nella strategy review del 2025».