L'intervista

«Se freniamo la competitività, perderemo attività e impieghi»

Interpharma è l'associazione delle aziende farmaceutiche svizzere orientate alla ricerca - Oggi conta 23 membri, tra cui i giganti come Novartis e Roche - In queste ultime settimane è intervenuta in più occasioni nel discorso pubblico, in particolare rispetto alle questioni USA, tra dazi e prezzi di riferimento dei farmaci - Ne parliamo con il CEO René Buholzer
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Paolo Galli
17.11.2025 06:00

Interpharma è l’associazione delle aziende farmaceutiche svizzere orientate alla ricerca. Oggi conta 23 membri, tra cui i giganti come Novartis e Roche. In queste ultime settimane è intervenuta in più occasioni nel discorso pubblico, in particolare rispetto alle questioni statunitensi, tra dazi e prezzi di riferimento dei farmaci. Ne parliamo con il CEO René Buholzer.

In un comunicato diramato la scorsa settimana, Interpharma rimarcava che la Svizzera è diventata Paese di riferimento per i prezzi dei farmaci negli USA. Direttore, quale impatto concreto prevedete a breve termine per i pazienti svizzeri e per il sistema sanitario svizzero?
«I prezzi dei medicamenti nei Paesi esteri vengono utilizzati negli Stati Uniti per definire il prezzo minimo estero al quale dovrebbe allinearsi il prezzo americano. Gli Stati Uniti ricorrono quindi a un sistema di prezzi di riferimento, utilizzato d’altronde anche dalla Svizzera. La fissazione dei prezzi in Svizzera diventa, così, rilevante per il più grande mercato farmaceutico mondiale. Il mercato svizzero rappresenta solo lo 0,5% del mercato mondiale, mentre quello americano è circa 100 volte più grande. Per evitare l’utilizzo di questo prezzo svizzero come riferimento, le aziende farmaceutiche rischiano fortemente di rinunciare a questo piccolo mercato per evitare l’influenza sul prezzo americano. La conseguenza diretta sarebbe quindi una diminuzione dell’immissione sul mercato di nuovi farmaci innovativi. E alla fine saranno i pazienti a subirne le conseguenze, con un accesso ridotto o ritardato ai nuovi farmaci».

In che misura la pressione sui prezzi negli Stati Uniti può riflettersi sulla Svizzera, e quali scenari ritiene più realistici: un rialzo dei prezzi in Svizzera, un effettivo peggioramento della disponibilità o un rallentamento nell’accesso all’innovazione?
«Da diversi anni è già in atto un deterioramento della disponibilità dei farmaci. Rispetto alla Germania, solo circa la metà dei nuovi farmaci innovativi autorizzati dall’Agenzia europea per i medicinali e rimborsati in Germania sono disponibili anche nel nostro Paese per tutti i pazienti. La clausola della nazione più favorita (MFN) annunciata con decreto negli Stati Uniti nel maggio di quest’anno e in fase di attuazione aggraverà ulteriormente la situazione. Il fatto che in Svizzera vengano immessi sul mercato sempre meno farmaci innovativi ha quindi già come conseguenza un rallentamento dell’accesso all’innovazione. Per quanto riguarda i prezzi, da molti mesi chiediamo una modernizzazione del sistema di formazione dei prezzi dei medicamenti, che riteniamo obsoleto e non più adatto ai nuovi farmaci innovativi. Data la situazione radicalmente nuova, è giunto il momento di non concentrarci più esclusivamente sui costi, come abbiamo fatto finora, ma di porre l’accento sulla missione di approvvigionamento prevista dalla legge, anche per i nuovi farmaci».

Lei ha spesso parlato della competitività del “polo pharma” svizzero. In che misura le minacce di dazi, le modifiche normative statunitensi e i modelli di prezzo internazionali mettono in discussione la scelta della Svizzera come base per R&S e produzione?
«Da un lato, il crescente isolazionismo degli Stati Uniti e le minacce di dazi doganali hanno come conseguenza che le aziende sono costrette a produrre maggiormente negli Stati Uniti per gli Stati Uniti. D’altra parte, i pazienti in Svizzera devono attendere sempre più a lungo l’immissione sul mercato di farmaci talvolta vitali. Il processo dell’UFSP volto a includere i farmaci nell’elenco delle specialità richiede sempre più tempo, rendendo il mercato svizzero meno attraente. A ciò si aggiungono anche le conseguenze negative della diminuzione della ricerca clinica, che rallenta l’innovazione limitando l’accesso dei pazienti alle nuove terapie».

Lei ha stimato - ricordando che «l’industria farmaceutica è di gran lunga il maggior contribuente del Paese» - un elevato mancato gettito fiscale in Svizzera a causa degli investimenti delle imprese farmaceutiche in USA. Quali sono i primi effetti che teme sulla filiera, sull’occupazione e sulla fiscalità locale?
«Perdendo attrattiva e competitività, il settore farmaceutico svizzero rischia di perdere attività che generano posti di lavoro e gettito fiscale. Meno posti di lavoro significano meno reddito generato, meno attività economica e meno consumi, con ripercussioni anche sulle attività di altri settori. Meno posti di lavoro significano anche meno ricerca. Il settore farmaceutico investe ogni anno 9 miliardi di franchi in ricerca e sviluppo. A titolo di confronto, il fatturato del settore in Svizzera è solo di 5 miliardi di franchi. Gli effetti sul gettito fiscale sono duplici. Quelli delle aziende farmaceutiche che, data la loro importanza, possono avere rapide ripercussioni sulle finanze dei Comuni, dei Cantoni, ma anche della Confederazione. A titolo di confronto, i 5 miliardi di franchi di imposte pagate dalle aziende farmaceutiche rappresentano i due terzi dell’intero budget FRI (formazione, ricerca e innovazione) della Confederazione. A ciò si aggiungono le perdite di gettito fiscale generate dai posti di lavoro che sarebbero stati trasferiti o soppressi. L’ultimo studio di Wellershoff & Partners mostra chiaramente cosa c’è in gioco: se l’industria farmaceutica svizzera delocalizzasse parte delle sue attività all’estero o non reinvestisse più in Svizzera, lo Stato potrebbe perdere fino a 10 miliardi di franchi di entrate all’anno».

Se la Svizzera vuole continuare ad avere un ruolo da svolgere, deve stabilire condizioni quadro che le consentano di distinguersi per rimanere competitiva

Come valuta la combinazione tra politiche di riduzione dei costi nel sistema sanitario svizzero e la necessità di garantire accesso rapido alle terapie innovative, soprattutto in aree come oncologia o malattie rare?
«Il benessere del paziente deve essere posto al centro dell’interesse comune. Occorre infatti distinguere tra il costo di una terapia e il costo di una malattia. Un paziente trattato tempestivamente con un farmaco innovativo potrà forse tornare al lavoro più rapidamente. Potrà forse anche evitare il ricovero in ospedale per la terapia. Anche questi sono elementi che devono essere presi in considerazione. Le malattie croniche comportano costi pari a 109 miliardi di franchi all’anno in Svizzera, come dimostra un nuovo studio della Confederazione. I farmaci e le terapie innovative hanno un costo, ma alla fine consentono di ridurre notevolmente tali costi per la società e il sistema sanitario. Tuttavia, invece di premiare questi progressi e rafforzare e attrarre queste innovazioni in Svizzera, l’UFSP continua a puntare su misure di riduzione dei costi che indeboliscono notevolmente la posizione farmaceutica svizzera e allontanano l’innovazione farmaceutica dal nostro Paese. L’innovazione farmaceutica non è parte del problema, ma della soluzione per una società sana, un sistema sanitario finanziato in modo sostenibile e un’economia forte».

Alla luce della nuova geopolitica farmaceutica - su tutto: dazi e pressione sui prezzi - come pensa che cambierà la strategia delle imprese farmaceutiche in Svizzera?
«Le aziende farmaceutiche che si occupano di ricerca sono imprese internazionali con una strategia definita a livello mondiale. In un mondo in cui i due maggiori mercati globali - Stati Uniti e Cina - stanno delocalizzando la loro produzione, la concorrenza tra i siti di insediamento si sta intensificando notevolmente nel resto del mondo. Se la Svizzera vuole continuare ad avere un ruolo da svolgere, deve stabilire condizioni quadro che le consentano di distinguersi per rimanere competitiva. Solo così potrà invogliare le aziende farmaceutiche internazionali a rimanere e a sviluppare le loro attività».

In una nostra recente intervista, Stefan Meierhans ha denunciato che la Svizzera spende troppo per la sanità rispetto ai Paesi vicini, con margini di risparmio “a dieci cifre” nel settore farmaceutico. Condivide?
«La spesa sanitaria riflette le priorità della società. I dati internazionali mostrano che la stessa aumenta con il livello di prosperità. Per quanto riguarda il costo dei medicamenti, la loro quota sui costi sanitari complessivi rimane stabile da oltre dieci anni al 12% circa. Ogni tre anni vengono rivisti tutti i prezzi dei medicamenti. Le modifiche al ribasso consentono di risparmiare ogni anno 1,5 miliardi di franchi. Se si tiene conto del potere d’acquisto, la Svizzera è uno dei Paesi meno costosi d’Europa, dove i farmaci brevettati costano in media il 20% in più rispetto alla Svizzera».

Sul freno ai costi sembra mancare un allineamento tra i vari attori. Come si potrebbe introdurre una logica di responsabilità condivisa tra industria, assicuratori e Stato?
«Negli ultimi anni l’industria farmaceutica ha dato un grande contributo al finanziamento sostenibile del sistema sanitario svizzero. È l’unico settore che dispone di un meccanismo istituzionalizzato di controllo dei prezzi, che ogni anno consente di realizzare risparmi per oltre 1,5 miliardi di franchi solo su questa base. A ciò si aggiungono altre riduzioni di prezzo, ad esempio in caso di estensione delle indicazioni e scadenza dei brevetti. Promuovendo i farmaci generici e biosimilari e adeguando i margini di distribuzione, negli ultimi anni l’industria ha contribuito con oltre 700 milioni di franchi allo sforzo di ulteriore riduzione dei costi. L’attuazione dei modelli di costo decisi dal Parlamento nell’ambito del secondo pacchetto di misure per il contenimento dei costi indebolirà ulteriormente la piazza farmaceutica svizzera, con conseguenze per l’economia e la popolazione svizzere».

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