L'intervista

«Se l'Iran attaccherà le basi USA un'escalation è possibile»

Lo scoppio della guerra diretta tra Israele e Iran segna una svolta importante per tutta la regione del Medio Oriente: ne parliamo con Emily Harding, analista presso il Center for Strategic and International Studies (CSIS)
© REUTERS/Hamad I Mohammed/File Photo
Dimitri Loringett
17.06.2025 22:00

Lo scoppio della guerra diretta tra Israele e Iran segna una svolta importante per tutta la regione del Medio Oriente. Il rischio di escalation è forte e si temono attacchi agli impianti petroliferi iraniani, da cui proviene circa un decimo dell’estrazione mondiale di greggio, che transita poi dallo stretto di Hormuz.

Per uscire da questa esplosiva situazione si guarda agli USA, ma anche alla Cina e alla Russia. Ma oltre al Medio Oriente c’è il conflitto in Ucraina, dal quale gli USA sembrano volersi disimpegnare. In vista della Global Commodities Conference, organizzata dalla Lugano Commodities Trading Association (LCTA) e che si terrà il 23-24 giugno al LAC di Lugano, abbiamo parlato con una delle relatrici ospiti, l’analista statunitense esperta di sicurezza nazionale Emily Harding del Center for Strategic and International Studies (CSIS).

Mentre gli effetti della guerra a Gaza, come gli attacchi dei ribelli Houthi nel Golfo di Aden (stretto di Bab al-Mandeb), sono stati in qualche modo «gestibili» per i trader di materie prime, la situazione israelo-iraniana appare molto più pericolosa. Lei vede un allargamento del conflitto tra Israele e Iran?
«Una guerra più ampia è possibile se l’Iran decide di colpire le basi militari statunitensi nel Golfo. Questo probabilmente coinvolgerebbe gli Stati Uniti e potrebbe spingere i Paesi del Golfo a contrattaccare. Sarebbe una scelta disastrosa per l’Iran. Gli Stati Uniti potrebbero anche scegliere di unirsi agli attacchi, utilizzando bombardieri pesanti per distruggere gli elementi meglio nascosti del programma nucleare iraniano».

Tel Aviv può «permettersi» un altro conflitto che, rispetto a quelli con i Paesi/aree confinanti, è potenzialmente più «impegnativo»?
«Israele vede l’Iran come una minaccia esistenziale. Dal punto di vista di Tel Aviv, l’Iran è la vera fonte di tutte le principali minacce che Israele deve affrontare, da Hezbollah agli Houthi a Hamas. Se non fosse per il sostegno dell’Iran, nessuno di questi attori sarebbe abbastanza potente da minacciare Israele. Se l’Iran riuscisse a dotarsi di un’arma nucleare, un solo attacco missilistico potrebbe significare la fine di Israele. Lo Stato ebraico considerava questa guerra necessaria e ha ritenuto che difficilmente si sarebbe presentata un’occasione più favorevole per intervenire».

I mercati del petrolio hanno immediatamente reagito all’attacco di Israele all’Iran, anche se l’attuale livello di prezzo intorno ai 75 dollari al barile è significativamente più basso rispetto ai 90-95 dollari raggiunti dopo gli attacchi di Hamas a Israele nell’ottobre 2023. Data la possibilità di un’ulteriore escalation del conflitto israelo-iraniano, quali sono le prospettive per i mercati energetici, in particolare per il greggio?
«Non mi occupo direttamente di analisi su questioni di energia, quindi non posso fare speculazioni sui prezzi del petrolio. Però, i fattori che li tengono alti saranno comunque duraturi, dalle sanzioni alla flotta ombra della Russia al conflitto con l’Iran».

Come osservato durante la recente visita di Donald Trump nella regione del Golfo, gli Stati Uniti sembrano concentrarsi principalmente sugli affari con questi Paesi. Le tecnologie avanzate, IA, «green tech» ecc. sono in piena espansione nella regione del Golfo: data l’instabilità di fondo, quanto è rischioso investire in questi settori nella regione?
«Il Principe della Corona dell’Arabia Saudita Mohammad bin Salman è abbastanza giovane e ha posto un forte accento sul high tech e sulle tecnologie per le energie rinnovabili per il Regno, suggerendo che sarà una priorità continua».

In Europa tendiamo a preoccuparci soprattutto della politica estera del suo principale partner economico, gli Stati Uniti. Che cosa rimarrà delle politiche dell’amministrazione Trump dopo il suo mandato? Qual è la visione? Per esempio, gli Stati Uniti continueranno a disimpegnarsi militarmente all’estero? E con quali conseguenze, per esempio sulla NATO?
«Trump rappresenta un cambiamento storico nella politica estera degli Stati Uniti, ma è anche un sintomo di una tendenza più ampia all’interno del Paese. Molti americani ritengono – e lo pensano da oltre un decennio - che gli Stati Uniti si siano assunti un onere eccessivo nella sicurezza globale. In altre parole, l’Europa è stata in grado di fornire ampi servizi pubblici (come l’assistenza sanitaria) perché gli Stati Uniti hanno sostenuto il peso della sicurezza. Pur non condividendo questa visione, essa è pervasiva negli Stati Uniti e Trump ha ridefinito le aspettative sulla condivisione delle responsabilità. Il suo approccio alla NATO riflette questa visione. È stato incoraggiante vedere così tante nazioni europee aumentare la propria spesa per la difesa: ciò renderà la NATO più forte e resiliente che mai».

In generale, sembra che gli Stati Uniti abbiano abbandonato il loro storico approccio «soft-power». Fino a che punto questo è intenzionale? Qual è la logica dietro questo cambiamento che, agli occhi del resto del mondo occidentale, è fonte di preoccupazione?
«Trump sembra considerarsi un pacificatore. Ha esitato a ricorrere al potere militare degli Stati Uniti e ha fatto ampie dichiarazioni sulla sua capacità di portare la pace in vari conflitti globali, compresa l’Ucraina. L’approccio di questa amministrazione sembra essere molto orientato a spingere entrambe le parti al tavolo dei negoziati, anche se c’è stato un certo cambiamento, con critiche rivolte a Mosca per le vittime civili e per la mancanza di volontà di negoziare in buona fede».

Guardando alle tensioni commerciali con la Cina, c’è un rischio escalation, che potrebbe portare a un conflitto (si veda il rafforzamento militare nel sud-est asiatico), tra le due superpotenze oppure Washington e Pechino riusciranno ad accordarsi in qualche modo, dati i loro decennali legami economici e commerciali?
«Né gli Stati Uniti né la Cina vogliono un conflitto militare. Gli Stati Uniti dovrebbero lavorare per una politica di deterrenza solida, affinché ogni giorno la leadership del Partito comunista cinese si svegli pensando “non oggi”, perché un conflitto sarebbe troppo costoso. Nel frattempo, i Paesi del mondo devono adottare misure per ridurre al minimo la loro dipendenza economica dalla Cina. Pechino ha scelto in larga misura la coercizione economica come strumento principale della sua strategia».

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