Il regime a tavola: il cibo come specchio del potere fascista

Che cosa ci dice il cibo di un’epoca? Più di quanto immaginiamo. Per il Ticino, vivere accanto a un vicino ingombrante come l’Italia fascista significava confrontarsi con le pressioni di una propaganda che entrava in cucina per trasformare i consumi in atti di fedeltà al regime. Anche in Svizzera, negli anni delle grandi crisi, il tema dell’autosufficienza alimentare entrava nel dibattito pubblico, ma senza i tratti totalitari che si respiravano oltreconfine. È proprio questa invasione dello Stato nella sfera più intima della vita quotidiana che Enzo R. Laforgia racconta nel suo libro Quando il fascismo dettava la dieta: una storia rivelatrice, che mostra come un regime potesse pretendere di disciplinare appetiti, abitudini e identità. Dalle parole dell’autore: «Fu lo stesso Mussolini, in occasione di un congresso del sindacato medici fascisti nel 1931, a dichiarare che, per creare l’Italiano nuovo, bisognasse modificare lo stile di vita, le abitudini consolidate e persino il modo di mangiare».
Il punto di svolta delle sanzioni
È proprio questa invasione dello Stato nella sfera più intima della vita quotidiana che Laforgia racconta come tratto distintivo del regime. Il punto di svolta fu il 18 novembre 1935, quando la Società delle Nazioni impose sanzioni economiche all’Italia per l’aggressione all’Etiopia. «Le sanzioni offrirono il pretesto per intervenire sulle scelte alimentari del Paese, sulla trasformazione delle materie prime e sul modo di consumare i pasti», sottolinea lo storico. Un Paese già provato dalla crisi del ’29 e dalla «quota 90» di Mussolini vide crescere i prezzi alimentari, mentre «un italiano su tre era sottoalimentato e non aveva il problema di ridurre i pasti, ma quello di riuscire a mangiare almeno una volta al giorno». E tuttavia, aggiunge Laforgia, «alcuni temi della propaganda di allora si sono sedimentati nella memoria di un intero popolo e talvolta riemergono senza necessariamente – almeno spero – tentazioni nostalgiche».
Sobrietà forzata e cucina politica
In questo contesto, la propaganda lanciò campagne di «sobrietà» e di rinuncia ai prodotti esteri: tè e caffè da bandire, riso e pesce da promuovere, polli e conigli ribattezzati «antisanzionistici». Persino la frutta divenne politica. «Il caso forse più interessante – osserva Laforgia – è proprio quello delle banane coltivate in Somalia, poi monopolio di Stato, con il loro consumo sostenuto da iniziative pubbliche e da apposite ricette di propaganda».
Le donne come trincea domestica
La propaganda passava anche dal ruolo delle donne: le massaie rurali furono arruolate come trincea domestica dell’autarchia. «A Varese, già il 10 novembre 1935, il Comitato femminile fascista annunciò che non avrebbe più acquistato prodotti stranieri, né consumato cibi provenienti da paesi sanzionisti, che avrebbe promosso l’allevamento domestico e che non avrebbe più giocato a bridge», ricorda Laforgia. E aggiunge: «la mobilitazione delle donne, ritenute le depositarie esclusive della gestione della spesa e della mensa, comportò l’adozione di pratiche nel solco della lotta antisanzionista», trasformando la cucina in un vero fronte domestico della politica.
Il lessico del piatto
Non solo ciò che si mangiava, ma anche il modo in cui lo si chiamava venne trasformato in strumento politico. «Il fascismo aveva posto il tema della difesa della lingua italiana dalle influenze straniere sin dal 1923, moltiplicando poi le iniziative per eliminare gli esotismi», osserva Laforgia. Così couvert fu sostituito da coperto, beefsteak da bistecca, mentre l’insalata russa lasciava spazio a versioni «tricolori». «Mai più nei ristoranti si sarebbe usato il francese couvert, sostituito da coperto; l’indicazione dry, extra-dry o triple-sec, usata per alcune bevande, avrebbe dovuto essere trasformata in secco, strasecco o trisecco; l’inglese beefsteak avrebbe dovuto cedere il posto all’italica bistecca», racconta ancora lo storico. «Anche in questo modo – aggiunge – si perseguiva, nel nome dell’autarchia, il progetto totalitario del fascismo».
Il riflesso in Ticino e in Svizzera
Questa politicizzazione del cibo non si fermò ai confini. In Svizzera, e nel Ticino in particolare, l’eco delle campagne fasciste arrivava attraverso i giornali, ma anche nei consumi.
Negli anni Trenta, il Ticino viveva una situazione alimentare fragile. L’agricoltura era poco redditizia, legata a terreni limitati e metodi tradizionali, e non garantiva l’autosufficienza. La dieta restava semplice e monotona, fondata su mais, patate, castagne e latticini, mentre i cereali dovevano essere importati in larga misura.
Se in Italia il fascismo trasformava questi limiti economici in strumenti di propaganda patriottica, in Svizzera il dibattito si muoveva su un altro piano: come rafforzare la capacità di approvvigionamento interno in caso di emergenze.
Queste preoccupazioni sfociarono, con la Seconda guerra mondiale, nel Piano Wahlen (1940), che mirava a incrementare al massimo la produzione agricola nazionale, trasformando anche prati e giardini in campi coltivabili e portando l’autosufficienza al 60–70% del fabbisogno. Parallelamente furono introdotte le tessere annonarie, che garantivano una distribuzione equa di zucchero, farina, grassi, legumi e altri beni essenziali. In Ticino i municipi divennero centri di distribuzione, e la dieta quotidiana cambiò radicalmente, tra scarsità e disciplina collettiva.
Se in Italia la cucina veniva piegata a esigenze di propaganda, in Svizzera la spinta fu invece più difensiva e coesiva. Anche nel nostro cantone il cibo finì per assumere un valore politico e simbolico.
Laforgia sottolinea come la sua ricerca non sia «folclore gastronomico», ma una dimostrazione di quanto uno Stato totalitario tenda a dominare la vita degli individui fino agli spazi più intimi. In questo senso, il legame con il presente è evidente: il ritorno di termini come «sovranità alimentare», oggi usati in politica italiana, mostra quanto il rapporto tra cibo, identità e potere resti attuale.
