Manovre attorno a Taiwan, un «messaggio» diretto agli USA e a Tokyo

Federico Brusadelli, storico con la doppia nazionalità svizzera e italiana, insegna Storia della Cina e Global History of East Asia all’Orientale di Napoli. Quest’anno, si è aggiudicato un finanziamento dello European Research Council di due milioni di euro per un progetto quinquennale sulla storia del concetto di autodeterminazione nel contesto cinese, con un focus sulla questione taiwanese. Il Corriere del Ticino lo ha interpellato chiedendogli un’analisi della situazione nel quadrante est-asiatico e nello Stretto di Taiwan, dove la Cina, da due giorni, sta conducendo una gigantesca esercitazione di terra, navale e aerea.
«Vorrei partire da un libro scritto dallo storico hongkonghese Pang Yang Huei - dice Brusadelli - Strait Rituals: China, Taiwan, and the United States in the Taiwan Strait Crises, 1954–1958 (Hong Kong University Press, 2019). Strait Rituals, ovvero: i rituali dello Stretto. Il libro parla delle due crisi degli anni ’50, quando c’erano Mao Zedong, Chiang Kai-shek e Dwight Eisenhower, quindi tutt’altri protagonisti. Ma il titolo è molto efficace, perché rende bene l’idea di ciò che, in effetti, sono sempre state, e sono tuttora, queste esercitazioni militari cinesi di fronte a Taipei: una performance. Un messaggio».
Un doppio messaggio
Le esercitazioni non sono mai sfociate in un vero conflitto, «sono rituali - insiste Brusadelli - ogni volta, naturalmente, riferite a un contesto diverso, sia interno cinese sia globale. Una volta assodata la ripetitività di queste azioni, e quindi il fatto che ci troviamo in presenza di nulla di nuovo, dobbiamo tuttavia identificare ciò che è specifico rispetto all’oggi. Sicuramente, gli 11 miliardi di dollari in armi che gli americani hanno venduto a Taiwan possono aver causato la reazione cinese, ma sono da valutare anche le inedite dichiarazioni della premier giapponese Takaichi Sanae, la quale ha sostenuto apertamente, a differenza dei suoi predecessori, che, in caso di invasione di Taiwan, il Giappone si sentirebbe parte in causa. Takaichi ha infranto un doppio tabù: prima, riferendosi a un’azione militare giapponese; dopo, prendendo apertamente le parti di Taiwan».
Pechino ha lanciato, quindi, un doppio messaggio: a Tokyo e a Washington. E proprio la posizione degli USA è, per lo storico dell’Orientale, «la più interessante. Siamo nell’era del secondo mandato di Donald Trump, e di fronte a novità importanti. Io leggo questa crisi dello Stretto anche come una volontà cinese di testare la reazione di Trump e degli Stati Uniti in generale. Pechino vuole capire quanto la Casa Bianca sia disposta a esporsi per difendere Taiwan. Non va mai dimenticato che, quando si parla di posizione americana nei confronti di Taiwan, da sempre, quindi anche nelle altre presidenze del dopoguerra, c’è una dinamica molto tesa tra l’amministrazione e il Congresso. Spesso si sono avute due linee diverse. È successo già negli anni ’50, con Harry Truman che voleva scaricare di fatto Chiang Kai-shek mentre il Congresso era molto più filo-Kuomintang di quanto non fosse il presidente. Ed è stato ancora più visibile con Bill Clinton negli anni ’90, quando l’amministrazione di Washington cercava il riavvicinamento con la Repubblica popolare cinese di Jiang Zemin, a fronte di un Congresso, a maggioranza repubblicana, deciso a mantenere forte il supporto a Taiwan. In questo caso - dice Brusadelli - credo che il presidente sia molto più tiepido rispetto a gran parte dei parlamentari, se non altro perché con Trump, lo abbiamo visto, la narrazione americana è completamente cambiata. Non si parla più di valori, di difesa dei valori e quindi di Taiwan come simbolo, appunto, di una democrazia asiatica contro l’autoritarismo cinese. Con Trump questo discorso non c’è più. Prevalgono gli interessi economici e strategico-militari. Un tipo di linguaggio, secondo me, molto più comprensibile per Xi Jinping e per il Partito comunista cinese di oggi».
Un cambio di paradigma. Che, sostiene lo storico italo-svizzero, potrebbe aver spinto Xi Jinping a «testare questa frattura interna agli Stati Uniti e vedere effettivamente quale sia il livello di interesse di Trump nei confronti di Taipei. Mi sembra che finora non ci sia stata una grande presa di posizione, mentre Joe Biden era stato molto più esplicito».
Una narrazione sgretolata
Taiwan è anche uno dei Paesi in cui sono concentrate le grandi produzioni di semiconduttori, e il presidente USA potrebbe voler lanciare un messaggio all’isola: “o vi piegate alle nostre richieste, oppure noi vi abbandoniamo ai cinesi”.
Qualcosa che, spiega ancora Brusadelli, «è stato perfettamente compreso a Pechino. Io resto convinto che il Partito comunista cinese preferisse la vittoria di Trump a quella di Biden, proprio per questo motivo: perché con il tycoon si può parlare d’affari. Non c’è più l’atteggiamento di superiorità morale che ha contraddistinto tutte le presidenze americane nel corso degli ultimi decenni, l’idea cioè degli USA come Paese guida dei valori liberali, nazione quasi missionaria della democrazia. Questa narrazione si è sgretolata, e ciò sicuramente mette le due grandi potenze su un unico piano di realismo, di interesse economico. Pechino sa di poter giocare la propria partita con una certa agilità. Perché, quando si parla di capacità negoziali, dal punto di vista economico la Cina non è seconda a nessuno. L’abbiamo visto ancora recentemente con la questione dei dazi».
Ma al di là delle ragioni nazionalistiche, che interesse avrebbe davvero Pechino a portare il Paese in guerra? Il Partito comunista cinese appare solido, i moti di piazza Tienanmen sono molto lontani: perché forzare la mano?
La questione, dice Brusadelli, è reale. «Il costo di un’invasione di Taiwan che vada oltre la retorica sarebbe molto alto: la Cina perderebbe molta credibilità non soltanto in Occidente, ma anche nel cosiddetto Global South. Sarebbe anche molto rischioso trascinare una popolazione ormai di media-alta borghesia e abituata al benessere in una stagione bellica in cui i giovani cinesi, in molti casi figli unici, sarebbero sacrificati per prendere un’isoletta minuscola se rapportata al territorio continentale. Non solo: quand’anche questo riuscisse, si aprirebbe uno stillicidio quotidiano. Una popolazione educata alla democrazia, alla partecipazione e anche a un certo orgoglio nazionale trasformerebbe Taiwan in un Tibet all’ennesima potenza, con la simpatia del mondo occidentale nei confronti degli oppressi. Insomma, un tunnel molto pericoloso. Per questo resto molto scettico sulla possibilità che ciò avvenga. L’unico motivo che potrebbe spingere Xi Jinping a tenere Taiwan nell’agenda futura sono le ambizioni marittime e geopolitiche. Eliminare, cioè, la barriera naturale che la separa dall’oceano».
