A tu per tu con «lo svizzero di Donetsk»

La prima volta che sentii parlare di lui lo definirono «lo svizzero di Donetsk». Quando mi risponde al telefono da Rostov, città russa vicina al confine ucraino dove momentaneamente si trova, parla in italiano con un forte accento campano, ereditato dai genitori emigrati da decenni nel cantone di Soletta dalla provincia di Salerno.
Bruno Giudice, classe 1975, è nato a Olten e ha vissuto in Svizzera fino al 2004 per poi stabilirsi a Donetsk, la città di sua moglie, dove oggi ha due figlie e un nipote «nato nel 2014, senza luce e sotto le bombe». Da Donetsk non se ne è mai andato fino a fine dicembre 2022, quando proprio per accudire il nipotino si è spostato in territorio russo qualche chilometro più a oriente. «A causa dei bombardamenti nel Donbass le scuole sono chiuse e mio nipote ha già perso due anni accademici. Abbiamo quindi deciso di portarlo in Russia per permettergli di avere un’istruzione». La sua famiglia fa oggi regolarmente la spola tra Donetsk e Rostov. Nonostante ormai nove anni di guerra, Bruno non ha mai lasciato questa regione. «Non è facile spostarsi. A Donetsk ho casa, famiglia e i suoceri di una certa età che parlano solo russo. Avremmo dovuto abbandonare tutto e ricominciare da capo. Anche se c’era la guerra abbiamo sempre sperato che venisse trovato un accordo di pace». In questi nove anni, Bruno non ha mai imbracciato un’arma, ma lavorato nel settore assicurativo.
Com’era la vita nel Donbass prima del 2014?
«L’Ucraina era in crescita economica e a Donetsk c’era stato un boom di investimenti grazie ai Campionati europei di calcio del 2012. Non ricordo alcun sentimento separatista marcato o alcuna richiesta di essere annessi alla Russia. Certo nel Donbass si parlava praticamente solo il russo ma nell’Ucraina di allora non c’erano problemi per i russofoni. Nel Donbass c’erano scuole che prediligevano le lezioni in russo e altre quelle in ucraino. Per mia figlia scelsi la scuola ucraina perché così avrebbe avuto più possibilità professionali, per esempio di lavorare come dipendente pubblica. Poi certo c’erano delle divisioni politiche in tutto il Paese tra chi votava per i partiti filorussi e chi per quelli filoccidentali ma mai avremmo pensato di arrivare alla guerra. Ricordo che durante gli eventi di piazza Maidan noi da Donetsk seguivamo le proteste vivendo tranquilli, andando normalmente al lavoro. Anche qui c’erano posizioni diverse tra chi era favorevole a Maidan e chi contro, pure all’interno delle stesse famiglie. Con il tempo iniziarono a esserci diverse manifestazioni di colore politico opposto tra chi sosteneva il cambio di governo avvenuto a Kiev e chi invece si opponeva. Queste ultime erano le più partecipate e i loro manifestanti iniziarono a occupare i palazzi dell’amministrazione e a creare intorno a esso barricate e presidi. Se però si evitava di andare in quella zona, la vita procedeva in tranquillità. Io andavo regolarmente al lavoro e allo stadio».
E poi cos’e successo?
«Poi scoppiarono combattimenti presso la città di Sloviansk che venne conquistata da gruppi armati filorussi. L’esercito ucraino la riconquistò dopo poco tempo e i combattenti filorussi si concentrarono a Donetsk, ormai passata sotto il loro controllo, che iniziò così a essere esposta al fuoco ucraino. Sulla città iniziarono a piovere missili grad, ci fu una grande battaglia all’aeroporto e sopra di noi vedevamo volare gli aerei da guerra ucraini. Ormai la guerra era dilagata. Con la mia famiglia scappai per qualche mese a Berdiansk, cittadina non lontana ma allora ancora controllata dagli ucraini e non esposta ai bombardamenti. Poi tornammo a Donetsk aspettandoci che la situazione si sarebbe via via tranquillizzata, ma così non fu».
Da allora la guerra non si è mai veramente fermata…
«Sono ormai nove anni che a Donetsk c’è la guerra. La città era controllata dai filorussi e ora dai russi, ma l’esercito ucraino è fino a oggi disposto intorno a gran parte di essa e i bombardamenti non sono mai cessati. Fino al 24 febbraio 2022 bombardavano occasionalmente solo distretti periferici, mentre il centro cittadino era considerato sicuro. In questa situazione avevamo sviluppato una sorta di nuova quotidianità: i bambini andavano a scuola, noi lavoravamo. Andavamo avanti».
In questa fascia di tempo i russi hanno man mano penetrato sempre di più i territori fino a prenderne di fatto il controllo già da prima del 24 febbraio 2022. C’è stato un momento in cui si è reso conto che Donetsk non sarebbe più tornata sotto l’Ucraina?
«È stato un percorso progressivo. Nel 2015 la moneta locale venne sostituita dal rublo russo perché le banche ucraine erano fuggite e i contanti scarseggiavano. Avere a che fare con l’Ucraina diventava sempre più complicato, per esempio per gli anziani che dovevano recarsi nei territori ucraini per ritirare la pensione. Per farlo serviva un permesso dei servizi segreti di Kiev, e spostarsi diventava un’odissea. Con il passare del tempo ricevevamo notizia dell’introduzione in Ucraina di leggi che restringevano l’utilizzo della lingua russa e che i movimenti filorussi ricevevano pressione. Più andavamo avanti più ci rendevamo conto che il sistema amministrativo nel Donbass cambiava: le targhe ucraine venivano sostituite con quelle delle repubbliche separatiste e la popolazione riceveva passaporti prima locali e poi direttamente russi. Ci rendevamo conto che tornare sotto Kiev diventava sempre meno probabile. Tuttavia, non pensavo ancora che la Russia avrebbe attaccato l’Ucraina come poi ha fatto. Pensavo che il Donbass sarebbe diventato l’ennesimo territorio formalmente indipendente ma in realtà controllato da Mosca come l’Abcasia».


E poi il 24 febbraio 2022 che cosa è successo?
«Già da giorni girava la voce che l’Ucraina stesse per attaccarci e le autorità locali invitarono i civili a fuggire verso la Russia. Noi, come tanti altri, abbiamo preferito rimanere. Poi venne indetta una mobilitazione militare degli uomini in età da combattimento, dalla quale sono stato risparmiato perché in possesso di un passaporto straniero. Il 24 febbraio mi alzai la mattina, accesi la tv e vidi le immagini dei bombardamenti russi su Kiev. Ero sbalordito. Fino ad allora ci veniva detto che era l’Ucraina che avrebbe attaccato».
Come è cambiata da allora la vostra vita a Donetsk?
«I bombardamenti ucraini sulla città hanno raggiunto un’intensità senza precedenti. Non più solo sulle periferie ma anche sul centro, con tante vittime civili. Sono state colpite più volte le vie più importanti, il mercato centrale e tanti altri luoghi affollati. Non riusciamo a capire quali siano la logica e l’obiettivo di questi bombardamenti, diventa difficile programmare i propri spostamenti. Ormai nessuno si sente più al sicuro da nessuna parte».
E come si sta sviluppando l’opinione della popolazione del Donbass nei confronti dei russi e degli ucraini?
«Molti sono filorussi, anche perché chi non lo era ha avuto nove anni di tempo per andarsene. Ci sono però ancora persone che siedono in casa aspettando il ritorno degli ucraini. La maggior parte vuole semplicemente vivere e sopravvivere in pace».
Che cosa si aspetta per il futuro?
«La gente fa fatica a capire fino a dove le parti che combattono vogliano arrivare. Tutti, sia Ucraina che Russia che Occidente, dicono di volere arrivare fino alla vittoria, ma che cosa significa? Che cosa bisogna ottenere per decretarla? Guardiamo alla città di Bakhmut, che è stata luogo di questa recente terribile battaglia che l’ha rasa al suolo. Tutti dicevano essere la battaglia decisiva ma ora che i russi l’hanno vinta non è cambiato praticamente nulla. A cosa serviva questa ennesima carneficina?».