Dé, il Vernacoliere è ancora vivo: «Meloni sembra Wanna Marchi, Elly Schlein ha paura di comunicare»

A Livorno si dice: «meglio un morto in casa che un pisano alla porta». I pisani, per tutta risposta, replicano: «te lo auguro». Stavolta, però, i livornesi il morto in casa l’hanno davvero rischiato: il Vernacoliere, il loro giornale più identitario, quello che da oltre quarant’anni porta in tutta Italia il vernacolo, la sfrontatezza e la libertà espressiva della città. Un culto laico fatto di titoli corrosivi, lingua schietta e rifiuto sistematico di qualsiasi compromesso. E quando, a metà ottobre, il direttore Mario Cardinali ha annunciato che dopo l’uscita di novembre il mensile si sarebbe fermato, più di uno ha pensato – e qualcuno ha sperato – che fosse davvero la fine. Per buona pace dei benpensanti, così non è andata. Succede.
Perché il Vernacoliere non è semplicemente un foglio irriverente: è un pezzo di identità collettiva, un laboratorio linguistico e culturale che ha influenzato generazioni di lettori, comici, scrittori, perfino ricercatori universitari. È sopravvissuto a crisi editoriali, polemiche politiche, processi e cambi di epoca, mantenendo intatti i suoi principi fondativi: niente pubblicità, niente contributi pubblici, nessun padrone. Solo lettori. Una rarità assoluta nell’editoria italiana.
L’annuncio dello stop è partito dall’ufficio dello stesso Cardinali, un luogo che sembra respirare: un labirinto di locandine, ritagli, bozze e disegni accumulati in quarant’anni. Il motivo era prosaico, quasi brutale: costi della carta schizzati alle stelle, edicole che chiudono, distributori che falliscono e lasciano voragini nei conti. «I bubboni son venuti fuori quando finalmente s’è guardato bene il quadro. Non era più sostenibile.»
La cronologia è limpida: metà ottobre, la «pausa di riorganizzazione»; fine novembre, l’ultimo numero. Ma subito dopo accade ciò che nessuno si aspettava. «Io pensavo arrivassero due messaggi di solidarietà, due pacche sulla spalla», dice il direttore. «Invece nel giro di quarantotto ore s’è scatenato un finimondo.»
Lettere, mail, testimonianze, bonifici, abbonamenti ricomprati e regalati. «Persone che ci leggono da trent’anni hanno scritto come se salutassero un familiare. Una signora mi ha raccontato che il Vernacoliere fu l’unica cosa a far ridere suo marito negli ultimi mesi di vita. E lì ti chiedi: come abbiamo fatto a entrare così nella vita degli altri?»
Poi arriva il Comune. Il sindaco Luca Salvetti mette a disposizione il Museo della Città per una grande mostra dedicata al mensile: oltre trecento locandine storiche, prime pagine, bozzetti, materiali d’archivio. «Quando m’han detto della mostra pensavo scherzassero», ride Cardinali. «Invece ho visto le nostre prime pagine appese come fossero Modigliani. Un paradosso che solo Livorno può capire.»
Tra quelle pareti riaffiora anche il processo degli anni Ottanta, quando il giornale finì in tribunale per aver usato, in una finta tassa, un termine popolare poi diventato simbolo della testata: la «topa». «Mi accusarono di oscenità. E io lì a spiegare che per noi a Livorno era roba di casa, lessico affettuoso. Ci fu da ridere, ma anche da difendersi.»
Ne uscì assolto. «Da allora ho capito che la forza non è scandalizzare: è far ragionare attraverso la provocazione. Oggi certe parole non avrebbero lo stesso effetto: il mondo è cambiato. La satira deve respirare l’aria del suo tempo.»
A questo punto Cardinali allarga il quadro: l’irriverenza migrata sui social, dove tutto evapora, e la politica trasformata in spettacolo permanente. «Oggi i primi comici sono i politici. E spesso non c’è nemmeno bisogno di ritoccarli.»
Su Berlusconi, una delle grandi nemesi del Vernacoliere, il direttore è netto: «Con lui avevamo un’autostrada aperta. Era inesauribile. Ogni settimana succedeva qualcosa che sembrava scritto da un autore comico: le televisioni, i processi, le donne. Dovevi solo scegliere da che parte prenderlo.»
Con Meloni la situazione è diversa: «È più tecnica, più costruita. Ha una capacità di parlare alle folle che ricorda certe televendite, sembra Vanna Marchi quando sale di tono. Ma grottesca come Berlusconi no, quello era un genere a sé. Però il potere è lì, e il dovere della satira è pungerlo comunque.»
Ma i giudizi a sinistra non sono meno severi: «Da Lugano ci avete portato Elly Schlein, che mi pare più preoccupata di gestire che di immaginare. E senza immaginazione non fai né politica né satira. È come se avesse paura di dire qualcosa che non sia un comunicato. Di quelli dove non ci si capisce nulla».
Accanto alla satira grafica e verbale, c’è la parte più silenziosa ma incisiva del Vernacoliere: gli editoriali in italiano. «Molti lettori mi dicono che li aspettano più delle locandine. Io studio, leggo, mi informo. La satira è un lampo; l’editoriale è un bisturi».
Si ride per non piangere. Ma non per non indignarsi. Come quando titola «I bimbi di Gaza vanno finiti d’ammazzà, sennò poi da grandi ci terrorizzano la democrazia». Un paradosso feroce che fece discutere per giorni. «Ma ha funzionato come uno specchio rovesciato: un pugno allo stomaco per costringere chi legge a non girarsi dall’altra parte. La satira deve sporcarti le mani, altrimenti è arredamento.»
La mobilitazione recente dimostra che la domanda di satira non è sparita. «Molti mi hanno scritto: «voi ci difendete». Io li capisco, ma non è vero. Noi abbiamo sempre voluto solo essere liberi. E oggi forse la libertà sembra già una forma di difesa.»
Il futuro resta un territorio mobile. La mostra e le donazioni garantiranno almeno un altro anno di pubblicazioni. Poi si vedrà. «Io non penso a un erede unico. Meglio un gruppo. Una comunità di teste libere che continui a disturbare. Il Vernacoliere non deve diventare un monumento: deve restare una puntura.»
Certo, a 88 anni bisogna averne di voglia per andare avanti. Cardinali sorride di traverso: «A casa mi aspetta solo una gatta… dimmi te se alla mia età mi tocca pure innamorarmi di lei» Lo dice ridendo, senza un filo di malinconia. «Però mi fa compagnia: si mette sulle gambe mentre scrivo e non s’offende mai». Poi si ferma un attimo: «In fondo è questo: finché ho voglia di leggere, di studiare, di cercare un titolo che mi faccia scattare qualcosa… un numero in più lo facciamo. Gli anni c’entrano poco. Conta la voglia. E la mia, per ora, non si è mica spenta».
