L'intervista

«Hamas e Iran, strategia unica contro Israele»

Con Giuseppe Dentice, analista dell’area mediorientale per il Ce.S.I., proviamo a unire i puntini di una situazione intricata, di un conflitto che ha «interessi e dinamiche trasversali» – Il pericolo terrorismo spaventa l’Occidente – E non mancano le domande sul fronte migrazioni
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Dario Campione
12.10.2023 06:00

Che cosa sta succedendo nel quadrante mediorientale? Perché Hamas ha attaccato Israele, ben sapendo che la reazione sarebbe stata terribile? E qual è lo stato dei rapporti tra i Paesi islamici? Il CdT ne ha discusso con Giuseppe Dentice, responsabile del desk Medio Oriente e Nord Africa del Ce.S.I. - Centro Studi Internazionali.

«Questo conflitto ha una natura e una ragione prettamente locali», esordisce Dentice. «Si inserisce, cioè, all’interno delle dinamiche Israelo-palestinesi. Tuttavia, e non lo possiamo negare, dietro potrebbero esserci anche interessi più ampi, dinamiche trasversali nelle quali Hamas vorrebbe inserirsi per farsi portavoce della causa palestinese e rendersi soggetto legittimo e credibile all’interno della comunità internazionale, e di quella araba, in particolar modo. Hamas punta a diventare rappresentante unico dei palestinesi, a essere alternativo in questo senso all’Autorità Nazionale Palestinese (ANP). Ovviamente, questo tipo di azione punta anche a demolire, o più presumibilmente, a rallentare tutti quei processi che si ricollegano ai cosiddetti “Accordi di Abramo” e alla normalizzazione delle relazioni tra Israele e Arabia Saudita».

Gli Accordi di Abramo

Il punto è capire se Hamas sia eterodiretta, magari dall’Iran, oppure compia le sue scelte in modo autonomo. «Hamas si muove per conto proprio - dice Dentice - può esserci però, indubbiamente, anche un interesse esterno da parte di chi, l’Iran in primis, sul fallimento degli “Accordi di Abramo” punta gran parte della sua capacità di influenza. Anche perché un’intesa del genere metterebbe Teheran sempre più nell’angolo e rischierebbe, diciamo così, di toglierle la fiche da giocare su un ipotetico tavolo del gioco mediorientale. Quindi, è chiaro che l’interesse iraniano esiste, ma non sappiamo  quanto davvero gli ayatollah siano coinvolti nel sostenere le azioni di Hamas».

E allora, è inevitabile tentare di capire se e perché questi accordi siano così rilevanti, anche in prospettiva futura. Secondo il ricercatore del Ce.S.I., la loro importanza risiede nel fatto che «da un lato contribuirebbero a ridisegnare l’intera architettura politica di sicurezza del Medio Oriente, dall’altro lato metterebbero sempre più nell’angolo un attore antagonista di Israele, ovvero l’Iran. L’azione di Hamas, nel breve periodo, rappresenta un successo o comunque un elemento positivo per Teheran perché contribuisce a mettere anche in cattiva luce la stessa Arabia Saudita, Paese con il quale, va ricordato, proprio l’Iran ha firmato nel marzo scorso un’intesa mediata dalla Cina. Sabotare una potenziale intesa darebbe a Teheran una maggiore capacità di influenzare le dinamiche della regione. Ovviamente, nessuno può dire se effettivamente ciò avverrà; tuttavia, è chiaro che il regime teocratico iraniano ha un’idea ben precisa di come poter esercitare sulla regione la sua influenza».

Israele è stato, per tantissimi decenni, il nemico storico di buona parte degli attori del Medio Oriente. Questo lo sappiamo tutti

I Paesi arabi, vicini o divisi?

Molto si gioca, sembra di capire, all’interno del sistema di relazioni tra i Paesi arabi e islamici che, agli occhi di osservatori distratti, potrebbero sembrare divisi tra loro, anche in funzione del rapporto con Israele. È davvero così?

«Questo non è un elemento da sottovalutare», dice Giuseppe Dentice. «Israele è stato, per tantissimi decenni, il nemico storico di buona parte degli attori del Medio Oriente. Questo lo sappiamo tutti, così come sappiamo che gli “Accordi di Abramo” hanno favorito una sorta di turning point, favorendo un cambio di passo in Paesi quali Emirati Arabi Uniti, Marocco, Bahrain e in parte anche Sudan. Una svolta in cui pace economica, sicurezza preventiva, finanziamenti ai partner degli Stati Uniti nella regione sono stati fondamentali per ridisegnare l’idea di sicurezza regionale in funzione anti-iraniana e mettendo nell’angolo la madre di tutti i problemi, ovvero il conflitto Israelo-palestinese. Ora, se le leadership sono anche propense a stipulare un certo tipo di intese con Israele, non va tuttavia dimenticato che le popolazioni, le società, restano fortemente anti-israeliane. Un esempio su tutti: l’Egitto. Il Cairo ha un trattato di pace con Israele dal ’79, ma non si possono considerare Israele e Egitto due popoli amici. Un discorso simile può essere fatto con la Giordania, altro Paese che nel ’94 ha firmato un trattato di pace con lo Stato Ebraico».

La soluzione, «un totem»

Per l’Arabia Saudita, sottolinea ancora Dentice, «il problema sarebbe addirittura superiore. La società saudita è fortemente anti-israeliana. L’Arabia Saudita non è paragonabile agli Emirati Arabi, è un Paese che ha partecipato attivamente alle guerre arabo-israeliane fornendo sostegno militare ma soprattutto economico. Non a caso, lo stesso Mohammed bin Salman ha detto sì di stare lavorando a un accordo con Israele, ma che questo accordo non può non avvenire se non attraverso un riconoscimento della statualità palestinese». La soluzione del problema palestinese, insomma, rimane tuttora «un totem, un elemento di riconoscibilità è di importanza fondamentale nelle politiche dei Paesi arabi. Ignorare un problema del genere può essere fortemente destabilizzante. Darebbe una percezione di tradimento. Se accordo dev’esserci, con Israele, può essere fatto soltanto in un certo modo e non deve dare l’impressione che l’Arabia Saudita abbia accettato le condizioni imposte da Gerusalemme. Ecco perché il discorso è veramente molto articolato e va ben oltre la mera firma o meno di un accordo».

Il rischio di possibili atti dimostrativi in funzione anti-israeliana e anti-occidentale è concreto

Possibili atti dimostrativi

Due ultime questioni preoccupano, in particolar modo, l’Europa. La prima è la sicurezza. Il conflitto tra Hamas e Israele è in grado di riaccendere la minaccia della jihad, del terrorismo islamista nel Vecchio continente? E poi, la crisi umanitaria di Gaza può portare a una nuova, gigantesca ondata di emigrazione?

«Sulla questione terrorismo bisogna essere cauti», dice Giuseppe Dentice. «Il rischio di possibili atti dimostrativi in funzione anti-israeliana e anti-occidentale è concreto. Abbiamo avuto già un campanello d’allarme poche ore dopo il lancio dell’operazione militare di Hamas, sabato scorso, ad Alessandria d’Egitto, dove un poliziotto ha ucciso due turisti israeliani. Un caso isolato, forse, ma chi ci dice che non si sia trattato di un infiltrato di Hamas o di altri gruppi interessati a destabilizzare il Medio Oriente e eventualmente anche l’Occidente con attacchi emulativi? Il pericolo terrorismo non riguarda soltanto l’Europa e gli Stati Uniti, ma lo stesso Medio Oriente, così come già avvenuto con il terrorismo stragista. Il grosso delle morti causate dall’ISIS o da Al Qaida è stato tra i musulmani e nei Paesi musulmani. Quindi: rischio emulazione plausibile, massima attenzione nelle comunità ebraiche in Occidente, ma anche molta prevenzione, perché soltanto attraverso un efficiente strumento di intelligence e una grande collaborazione tra tutti gli attori interessati è possibile evitare il peggio».

Sul fronte migrazioni, lo scenario appare tragico. «Soprattutto se prendiamo per buone le parole di Netanyahu, che ha detto agli abitanti di Gaza di lasciare le proprie case. L’Egitto ha già chiuso il valico di Rafa, dopo che da lì sono entrati 200 mila palestinesi, il 10% di una popolazione di oltre due milioni di abitanti. E gli altri? Che cosa faranno? Saranno “internally displaced”, come si dice, sfollati all’interno del proprio Paese, o saranno riassorbiti nella regione? E anche se così fosse, è possibile che buona parte di questi palestinesi decida di fuggire e andare altrove, in Europa ad esempio, attraverso la Turchia o l’Egitto. Domande che dobbiamo porci. Certo, è anche possibile immaginare che un conflitto come questo possa contribuire ad alimentare la tratta illegale dei migranti. Per quanto, il grosso di queste migrazioni giunge dall’Africa e, in particolare, dall’Africa Subsahariana, dal Sahel, dall’Africa occidentale e dal Corno d’Africa».

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