Tecnologia e geopolitica

La dipendenza europea dalle Big Tech: «Urgente una de-americanizzazione»

La riflessione di Bruno Giussani si inserisce in un discorso che riguarda tutto il Vecchio Continente - Una questione che tocca vari aspetti della nostra vita e della nostra sicurezza, specie in tempi fattisi rapidamente così incerti sul piano globale
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Paolo Galli
05.12.2025 06:00

«Questo approccio si giustifica solo a una condizione: che si accompagni a un’accelerazione della transizione europea verso le industrie di domani, a una riduzione della dipendenza tecnologica e sicuritaria dagli Stati Uniti e a una preparazione strategica di fronte al boom inevitabile della Cina». Il ticinese Bruno Giussani, a lungo curatore internazionale dell’organizzazione no profit TED, prova a motivare così lo «spettacolo di umiliazione personale e istituzionale» dei dirigenti europei (svizzeri compresi) di fronte a Donald Trump durante questo 2025. È un passaggio del suo «Moins d’Amérique dans nos vies» (Kraft, la collection des idées, di Le Temps, Heidi.News e Georg Editeur; presto verrà distribuito anche in italiano), una riflessione brillante sulla nostra dipendenza dagli Stati Uniti.

Capacità d’azione ridotta

«L’Europa deve agire rapidamente per evitare che la sempre più importante sfera digitale venga lasciata agli Stati Uniti e alla Cina in futuro». Lo ha detto, nei giorni scorsi, Friedrich Merz nel contesto di un vertice sulla sovranità digitale. Il cancelliere tedesco è andato oltre: «L’Europa non deve lasciare quest’area a loro, anche perché la dipendenza dei Paesi dell’UE dall’infrastruttura IT degli Stati Uniti e della Cina viene utilizzata per “politica di potere”». A Berlino c’era anche Emmanuel Macron: «L’Europa non vuole essere cliente dei grandi imprenditori o delle grandi soluzioni che provengono dagli Stati Uniti o dalla Cina. Vogliamo sviluppare le nostre soluzioni». D’accordo, ma c’è da recuperare terreno. Proprio perché questa dipendenza è ormai radicata. «L’Unione europea è attualmente fortemente dipendente dalle tecnologie straniere», riportava il Parlamento europeo in un rapporto pubblicato lo scorso mese di giugno. «Ciò riduce la sua capacità di azione strategica e la sua competitività economica. Inoltre, espone i suoi dati sensibili, in particolare a causa delle leggi extraterritoriali statunitensi. Date le ambizioni della nuova amministrazione Trump, che ha annunciato 500 miliardi di dollari per il settore chiave dell’IA da qui al 2029, questa situazione sembra destinata a persistere». Insomma, siamo di fronte a un problema noto, discusso e attualissimo. Vale anche per la Svizzera. Il Consiglio federale, nel rapporto in adempimento del postulato Z’graggen sulla «sovranità digitale della Svizzera», la scorsa settimana ammetteva che «la crescente propensione degli Stati a utilizzare come mezzo di pressione l’accesso alle tecnologie digitali che controllano pone delle sfide agli Stati che hanno raggiunto un elevato livello di digitalizzazione, come la Svizzera». La dipendenza è spesso riconosciuta, ma pur riconosciuta non è facilmente superabile.

Sorveglianza e controllo

Lo stesso Giussani riconosce come «per un Paese come la Svizzera, culturalmente, storicamente ed economicamente molto americanizzato e americanofilo», sia «molto difficile formulare il concetto di “de-americanizzazione”». Anche perché, «per decenni, l’Europa si è adagiata». In fondo «l’impegno degli Stati Uniti a favore di un ordine internazionale basato su regole e valori, sebbene interpretato in modo variabile, sembrava solido e duraturo». Ma ora le condizioni sono rapidamente cambiate, «verso un quadro globale basato sul potere e sulla forza», che registra anche «la deriva autoritaria e nazionalista dell’amministrazione Trump e la messa in discussione di amicizie storiche, spesso sostituite da atteggiamenti ostili». E allora «il dominio tecnologico americano» si sta trasformando, per i Paesi europei, «in un fattore primario di vulnerabilità sistemica». La rete di potere che collega Donald Trump alle Big Tech - fatto evidente sin dal giorno 1 della sua presidenza bis - è, in questo senso, inquietante, anche perché, come sottolineato da Giussani, si basa «sulla sorveglianza e il controllo, la manipolazione e l’uniformizzazione». Gli intenti sul digitale sono chiari, anzi dichiarati. Il presidente degli Stati Uniti lo ha scritto e sottoscritto nell’incipit del suo piano d’azione sull’IA (intitolato «Winning the Race»): «Mentre i nostri concorrenti globali fanno a gara per sfruttare queste tecnologie, è fondamentale per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti raggiungere e mantenere un dominio tecnologico globale indiscusso e incontrastato. Per garantire il nostro futuro, dobbiamo sfruttare appieno il potere dell’innovazione americana». In ballo, oltre al dominio economico, c’è di più: c’è anche il controllo della democrazia dei singoli Paesi.

Oltre l’ineluttabilità

Il discorso di Giussani è complesso, anche perché interpella ognuno di noi, non solo la politica. È una questione di responsabilità individuali e collettive. Uscire dal controllo delle grandi aziende tecnologiche, e quindi degli Stati Uniti - e vale pure per la Cina -, impone grandi sforzi da parte delle autorità federali e piccoli gesti da parte dei singoli. Ma Giussani - che ha avuto modo di collaborare nel recente passato con i vertici dei vari giganti tecnologici, e nella pubblicazione ne parla con tanto di aneddoti puntuali - sottolinea che «l’Europa non può proteggere la propria sovranità numerica (e quindi politica, visto che lo spazio pubblico è quasi interamente digitalizzato), ma anche l’integrità cognitiva dei suoi cittadini, senza de-americanizzare il più possibile la propria infrastruttura tecnologica e informatica». Certo, servono importanti investimenti e un approccio positivo alla questione, che vada oltre quella sensazione di ineluttabilità che sembra trattenere l’Europa di fronte alla questione. Sì, perché come sottolinea l’esperto Luca de Biase, citato dallo stesso Giussani, è come se il Vecchio Continente si fosse rassegnato all’idea di un monopolio americano. Come se non si potesse più fare nulla. Qui la questione diventa davvero interessante, allora, perché impone all’Europa di ragionare in maniera differente, evitando di replicare i modelli altrui. In uno dei passaggi centrali della sua pubblicazione, Giussani riflette: «Forse dobbiamo anche de-americanizzare il nostro modo di considerare la nostra realtà».