L'intervista

Nessuna fuga in massa: pochissime aziende hanno lasciato la Russia

Uno studio dell'Università di San Gallo e dell'IMD di Losanna mostra come solo l'8,5% delle imprese di Paesi UE o del G7 sia effettivamente uscito dalla Russia: ne parliamo con uno degli autori, il prof. Niccolò Pisani
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Michele Montanari
23.01.2023 09:30

 

Lasciare la Russia? Più facile a dirsi che a farsi. Dopo l’invasione dell’Ucraina da parte delle truppe di Mosca, l’arrivo delle sanzioni e le condanne pressoché unanimi del mondo occidentale, numerose aziende hanno cercato di andarsene dal Paese di Putin, almeno a parole. Leggendo i titoli dei giornali e ascoltando le dichiarazioni indignate delle imprese, oggi si potrebbe pensare alla Russia come una landa desolata per quanto riguarda la presenza di aziende con sedi nei Paesi dell’Unione europea o membri del G7. Ebbene, non è così. Emerge da un recente studio condotto dal professor Simon Evenett dell'Università di San Gallo e dal professor Niccolò Pisani dell’International Institute for Management Development (IMD). La ricerca smentisce la teoria secondo cui le aziende occidentali avrebbero lasciato in massa la Russia: a novembre del 2022, solo l'8,5% delle imprese con sede in Stati del G7 o dell'Unione europea (UE) aveva infatti completato l’uscita dal Paese invasore. I dati parlano chiaro (qui lo studio Less than Nine Percent of Western Firms Have Divested from Russia): se McDonald’s, Renault, Nissan o Starbucks hanno effettivamente cessato le attività, tante altre imprese non lo hanno fatto, o non hanno ancora completato l’uscita dalla Russia. Nel caso degli Stati Uniti si arriva a meno del 18% di aziende che hanno fatto le valigie. Fra le società giapponesi si raggiunge circa il 15% di partenti, mentre nell'Unione europea si arriva all'8,3%. La maggior parte di quelle rimaste in casa di Putin, il 19,5%, è tedesca. Abbiamo approfondito la questione proprio con Niccolò Pisani, professore di strategy and international business presso l'IMD di Losanna, nonché co-autore dello studio.

Il professor Pisani ammette di esser rimasto abbastanza sorpreso dai risultati e spiega: «A seguito dell’invasione russa, nell’Unione europea e negli altri Paesi del G7 si è generata una forte pressione per far sì che le aziende uscissero dalla Russia, o quantomeno limitassero le attività commerciali in Russia. Nello studio ci siamo concentrati sulle aziende di questi Paesi proprio perché, dopo l’imposizione delle sanzioni, eravamo intenzionati a capire quanto in 9 mesi il decoupling (il disaccoppiamento) si fosse materializzato». Lo studioso precisa: «Solo l’8,5% delle aziende ha completato l’uscita dalla Russia, ma occorre puntualizzare che questo è quello che in inglese si chiama moving target: la situazione si evolve costantemente, abbiamo costantemente nuove notizie e tra qualche giorno, come tra qualche mese, le aziende che ad oggi hanno rilasciato dichiarazioni sulla loro volontà di completare l’uscita dalla Russia, ma non la hanno ancora completata, magari la porteranno a termine in breve tempo. Non solo abbiamo focalizzato la nostra attenzione su una serie di Paesi, ma abbiamo anche limitato il nostro studio alle aziende che effettivamente avevano la presenza di una società o il controllo di una o più sussidiarie in Russia. Abbiamo escluso ogni altro tipo di relazione commerciale con la Russia, ad esempio il solo import-export o una determinata partnership contrattuale. Questo proprio perché sappiamo bene che, quando si vanno a creare sussidiarie o si ha il controllo di società, ovviamente per le aziende è più complicato muoversi: alla base c’è una forma di investimento che richiede un impegno superiore, generalmente anche economico».

Si legge di aziende che stanno trovando grossi problemi ad andarsene, perché lo stesso Governo russo può intervenire per evitare che i disinvestimenti vengano conclusi.

Il professor Pisani continua: «Tutto ciò si collega dunque a potenziali difficoltà nel completare il disinvestimento in Russia. Come spieghiamo nello studio, possono esserci casi in un cui le aziende hanno dichiarato di volersene andare, quindi intenzionate a chiudere o vendere la sussidiaria, poi però non riescono a trovare un compratore. Oppure devono andare incontro a tutta una serie di pratiche relative al disinvestimento. In questi giorni si è letto di aziende che stanno trovando grossi problemi ad andarsene, perché lo stesso Governo russo può intervenire per evitare che i disinvestimenti vengano conclusi. E ancora, ci sono poi gli impegni contrattuali e tutta una serie di obblighi di natura legale. Insomma, le ragioni per non aver completato l'uscita sono molteplici». Il professore ribadisce: «Noi siamo andati a cercare tutte le aziende estere che provengono da un Paese UE o G7 e che all’inizio del conflitto avevano almeno una sussidiaria in Russia. Come detto, possono essere diverse le cause per cui non sia stato completato il disinvestimento, ma ci sono anche aziende che hanno chiaramente dichiarato di voler restare: “Noi non facciamo parte delle sanzioni in quanto forniamo beni e servizi alla popolazione russa, quindi continuano ad operare”. Tante altre hanno invece limitato le loro operazioni».

L’UE ha posto tutta una serie di sanzioni, escludendo però alcuni settori. È stato fatto un distinguo per non danneggiare la popolazione russa, ma piuttosto colpire le aziende vicine al Governo

Il nostro interlocutore aggiunge qualche dato: «Lo studio si concentra esclusivamente su quelle cha hanno completato l’uscita: a fine novembre 2022 erano solo l’8,5%. All’inizio del conflitto c’erano 2.405 sussidiarie di aziende provenienti da un Paese UE o G7, secondo il database ORBIS, da noi consultato in quanto di riconosciuta qualità. Anche se ovviamente bisogna adottare sempre le dovute cautele, in quanto bisogna tenere in conto che in alcuni Paesi è più difficile poter avere dati completi e attuali rispetto ad altri. Secondo il database ORBIS, all’inizio del conflitto c’erano 2.405 sussidiarie appartenenti a 1.404 aziende UE o G7. Noi siamo stati in grado di trovare informazioni sul completo disinvestimento di almeno una delle loro sussidiarie solo per 120 di queste 1.404 imprese». Il professor Niccolò Pisani conclude: «L’UE ad oggi ha posto tutta una serie di sanzioni, escludendo però alcuni settori. Pensiamo a quelli degli alimentari, dell’agricoltura, dei fertilizzanti, di prodotti farmaceutici o di determinati beni di consumo. È stato fatto un distinguo per non danneggiare la popolazione russa, ma piuttosto colpire le aziende vicine al Governo o collegate all’apparato militare e finanziario. Il nostro studio fornisce dati empirici su quanto può essere difficile e quanto tempo può essere necessario perché avvenga una disconnessione economico-commerciale alla luce di questi venti geopolitici».

 

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