Trump, il caso Honduras e quella «ipocrisia» sul narcotraffico

«Sembra che l'Honduras stia cercando di cambiare i risultati delle sue elezioni presidenziali. Se lo faranno ci sarà l'inferno». Con questa frase, pubblicata sul suo social Truth, Donald Trump è tornato a mettere pressione sul Paese centroamericano, dopo una settimana accesa nella quale il leader di Washington ha tentato apertamente di influenzarne il processo elettorale con la minaccia di tagliare gli aiuti finanziari alla nazione nel caso in cui Nasry “Tito” Asfura, candidato di destra appartenente al Partito Nazionale, non ne fosse uscito vincitore. Su Truth, il leader americano ha affermato che l'Honduras «ha smesso improvvisamente di contare i voti». E nelle scorse ore, in effetti, il Consiglio Nazionale Elettorale dell'Honduras (CNE) ha fatto sapere di aver interrotto temporaneamente la trasmissione dei risultati quando era stato conteggiato circa il 57% delle schede, citando problemi tecnici e promettendo una ripresa nella mattinata di martedì.
Dai dati disponibili emerge un equilibrio quasi perfetto tra il citato Asfura e Salvador Nasralla, candidato liberale: 39,91% contro 39,89%, separati da appena 515 voti. Molto più indietro la candidata di sinistra Rixi Moncada, sostenuta dall’uscente Xiomara Castro, ferma al 19%. Un quadro talmente serrato da spingere il CNE a invocare «prudenza e pazienza», ricordando che la legge concede trenta giorni per i risultati definitivi.
«Ipocrisia totale sul narcotraffico»
L'ingerenza del presidente americano si situa in un contesto regionale già teso. Negli ultimi mesi, Trump ha rafforzato la presenza militare americana nei Caraibi e intensificato le minacce contro il presidente venezuelano Nicolás Maduro. Ma proprio attorno al tema del narcotraffico, utilizzato dal presidente statunitense come giustificazione per la sua strategia interventista, sono emerse evidenti contraddizioni, hanno fatto notare nelle scorse ore media internazionali come il Guardian e Le Monde. Già, perché negli ultimi giorni Donald Trump ha annunciato di voler graziare Juan Orlando Hernández, l’ex presidente honduregno condannato nel 2024 a 45 anni di carcere per aver trasformato l'Honduras - parole dei procuratori statunitensi - in un «corridoio della cocaina» verso il Nordamerica. Hernández, figura di vertice dello stesso Partito Nazionale di Asfura, è stato descritto dai procuratori americani come uno dei più rilevanti trafficanti di droga mai arrivati ai vertici di un Paese, accusato di aver collaborato con i principali cartelli latinoamericani e di aver incassato milioni di dollari in tangenti, compreso un milione versato da El Chapo per la campagna del 2013.
Non è un caso, dunque, che l’annuncio della grazia abbia suscitato critiche durissime negli Stati Uniti. Tanto che leader della DEA (l'agenzia USA antidroga) hanno parlato di «ipocrisia totale». In particolare, si legge sul Guardian, Mike Vigil, ex capo delle operazioni internazionali della DEA, ha osservato che Hernández ha contribuito a far entrare negli Stati Uniti quantità di droga infinitamente superiori a quelle intercettate dalle operazioni militari che Trump ha recentemente lanciato nei Caraibi, operazioni criticate come "non proporzionali" da esperti di diritto internazionale: «Se vuole graziare Hernández, perché non graziare anche El Chapo?», ha ironizzato Vigil. «El Chapo Guzmán è una figura meno importante nel mondo della droga di quanto lo fosse Juan Orlando Hernández».
Elezioni importanti
Accuse di brogli, ritardi e sospetti di interferenze in Honduras, va tuttavia sottolineato, non provengono solo dall'amministrazione Trump. Organizzazioni internazionali come Human Rights Watch, ad esempio, hanno espresso preoccupazione per la pressione su autorità elettorali, la militarizzazione del processo e le indagini penali su membri del consiglio elettorale. Certo è che per l'Honduras queste elezioni rappresentano un momento importante. Lo spoglio dirà il nome non solo del nuovo presidente, ma anche di 128 deputati del Congresso e 298 sindaci e rappresentanti locali e regionali. Una vera e propria ristrutturazione, insomma, delle istituzioni locali e centrali.
