Cina

Xi Jinping resisterà alle proteste?

Esperti e analisti rilanciano la domanda di fronte alle manifestazioni e alla rabbia della popolazione: di mezzo non c'è solo il coronavirus, ma anche l'insofferenza verso la dittatura
I fogli bianchi, simbolo della protesta© EPA/MARK R. CRISTINO
Marcello Pelizzari
28.11.2022 10:00

Cina, è la fine di Xi Jinping? La domanda corre veloce, nelle varie analisi degli esperti. Solo un mese fa, il leader del Paese festeggiava un nuovo mandato. Oggi, la sua capacità di soffocare il dissenso appare limitata di fronte alle proteste per la strategia zero-COVID, rivelatasi una volta ancora sbagliata. Perfino i lockdown più severi e limitanti, a questo giro, non hanno potuto contenere la rabbia e le grida dei cittadini, armati di fogli bianchi: da un lato il colore del lutto, dall’altro un richiamo esplicito alla censura.

Nulla, ancora, ha potuto la rete di sicurezza nazionale digitale. Un Grande Fratello orwelliano costato miliardi e miliardi di fondi statali, voluto per rilevare e, appunto, sopprimere le critiche al Partito comunista e al suo rappresentante più illustre.

Come la mettiamo, dunque?

Le parole del dottor Li

Tre anni fa, nel dicembre del 2019, quando il dottor Li Wenliang rilevò per la prima volta un nuovo coronavirus, le autorità cinesi lo accusarono di «fabbricazione sovversiva». Ti sei inventato tutto, in pratica. Per circa tre settimane non vennero prese precauzioni né vennero adottate misure. Poco prima di morire, a causa del COVID, il dottor Li disse ai giornalisti: «Una società sana non dovrebbe avere una sola voce». Una frase che suscitò un’ondata empatica sui social, prima che la Cina intervenisse con oscuramenti e censure.

Tre anni dopo, il COVID continua a diffondersi nel Paese. Ma la sola voce citata da Li fatica, sempre di più, a contenere il cosiddetto dissenso. Sui social. E per le vie delle maggiori città. C’è chi, senza paura, ha chiesto perfino le dimissioni di Xi Jinping. Bollandolo come «dittatore e traditore nazionale».

Le proteste di questi giorni non sono una novità assoluta. Ad aprile, ad esempio, erano già emersi video girati a Shanghai, durante l’ultimo, grande lockdown che aveva attanagliato la megalopoli. Si trattava, tuttavia, di singole iniziative e non certo manifestazioni di massa.

Il ricordo del 1989

Mentre i livelli di infezione hanno superato i record precedenti, proprio Shanghai è finita un’altra volta nell’occhio del ciclone. E la questione COVID, va da sé, ha semplicemente fatto da miccia. I manifestanti, infatti, stanno prendendo di mira, direttamente, il sistema comunista. Oppressivo e liberticida. Per questo, hanno chiesto non soltanto la revoca delle varie restrizioni ma anche il rovesciamento del Partito e dello stesso Xi.

Le proteste, evidentemente, gettano un’ombra sul futuro di Xi e della stessa Cina. Un mese fa, dicevamo, il Congresso del Partito aveva permesso all’attuale leader di consolidare e rafforzare la sua presa autocratica. Xi, al Congresso, aveva citato la necessità di promuovere la prosperità comune. I fatti gli stanno dando torto, con i cittadini che – semplicemente – ne hanno abbastanza.  

Il ricordo, è inevitabile, corre indietro fino a ripescare il 1989 e Piazza Tienanmen. Non a caso, alle manifestazioni anti-regime hanno partecipato anche molti studenti. La richiesta? Democrazia al posto della dittatura.

Le battaglie esistenziali

Tornando al COVID, Xi ne ha fatto una questione (quasi) personale. Allontanandosi, però, tanto dai partner internazionali – irretiti dai problemi economici che hanno generato i lockdown – quanto dai cittadini. L’idea che la Cina, nel mondo, dovesse avere un ruolo benevolo è stata tradita, nei fatti, da atteggiamenti quantomeno preoccupanti. La morsa su Hong Kong, la questione Taiwan, la vicinanza alla Russia. Il coronavirus, in fondo, è soltanto una delle minacce esistenziali per la Cina. E i cittadini, loro malgrado, sono finiti in mezzo a una battaglia che Xi vuole assolutamente vincere. Con qualsiasi mezzo e senza badare alle conseguenze, apparentemente.

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